Manaus, oltre il lustro del mondiale di calcio La Parigi dei Tropici distrutta dalla crescita

La città amazzonica dell'esordio azzurro era un tempo una perla del Sud America. Oggi è il simbolo della crescita rapida brasiliana, che ha portato lo sfruttamento agricolo intensivo, le miniere, la distruzione delle foreste e l'arrivo dei narcos. Mentre l'arte e le tradizioni locali sono state consegnate al marketing

"Porto de lenha non sarai mai Liverpool”, recita la canzone simbolo di Manaus, la capitale dell’Amazzonia brasiliana  e meta dell'esordio azzurro, una volta chiamata la Parigi dei Tropici.

Alla fine del ‘800, epoca di grandi migrazioni dal Portogallo, dalla Francia e dall’Italia, i documenti delle società londinesi che gestivano tutto da queste parti - ad iniziare dal porto commerciale - descrivevano una ville lumiere con più lampadine della stessa Parigi. Uno sfarzo poi finito tragicamente nel 1913, quando i sudditi di sua Maestà portarono clandestinamente i semi del caucciù nel sudest asiatico, facendo crollare il prezzo della gomma elastica.
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E se gli inglesi facevano business, agli italiani toccava l’arte. Il Teatro Amazonas è intriso di storie ed opere arrivate dai nostri porti. Le pitture di Domenico de Angelis, i marmi tagliati a Carrara, i vetri delle luminarie di Murano. E poi le compagnie dell’opera che qui arrivavano in tournée - anche se la presenza di Caruso è solo leggenda. Tipicamente italiana è la stessa storia della costruzione del teatro monumentale, affidata inizialmente alla Rossi & irmaos di Rio de Janeiro, poi fallita.
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Manaus oggi è però il simbolo di una storia feroce di espansione e dominazione. Un progetto economico di conquista del nord nato durante la dittatura militare, e ripreso in grande stile con il recentissimo Pac, il programma di crescita rapida che con il governo Lula ha messo il turbo all’economia brasiliana. Negli anni ’70 gli aerei dei militari sorvolavano l’area a nord della città, trecento chilometri all’interno della foresta, preparando il terreno per l’arrivo delle miniere di stagno, ancora oggi attive. «Buttavano una polvere bianca e tutti morivano», raccontano alcuni indigeni Waimiri-Atroari in un documento della commissione "Verità” del 2012, firmato dall’ex missionario gesuita Egydio Schwade. E poi esplosivo, mitragliatrici, epidemie più o meno provocate ad arte, per un genocidio costato in pochi anni 2.000 morti. Intanto nella città prendevano forma la Zona Franca il distretto industriale, modelli di sviluppo che hanno fatto crescere la popolazione da 500 mila a quasi due milioni di unità in quarant’anni.
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Oggi l’antica e profonda storia culturale della capitale dell’Amazzonia è diventata puro marketing. Festival dell’Opera dedicato a turisti ricchi, festival folclòrico sponsorizzato dalla Coca Cola (a fine giugno, nell’isola di Parintins), festival del Cinema che fa il verso ad Hollywood. E ora, i campionati mondiali di calcio. Vetrina di una Amazzonia dove lo sviluppo vuol dire riapertura delle strade volute dai militari, sfruttamento agricolo intensivo nella fascia sud della foresta, apertura continua di miniere, spesso a ridosso delle aree indigene, produzione di energia con barriere idroelettriche in grado di distruggere ettari di foresta pluviale. Modello duramente criticato dalla Conferenza episcopale brasiliana: «I grandi progetti idroelettrici non sono pensati per le comunità locali o regionali - ha scritto in un articolo il 9 giugno don Roque Paloschi, vescovo del Roraima - rispondono ad interessi dei gruppi nazionali e multinazionali e all’idolo della crescita macroeconomica».
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La capitale, intanto, ha perso - forse per sempre - il suo fascino di Parigi dei tropici. Le statistiche mostrano una città tra le più violente del mondo, con un tasso di 56,2 omicidi ogni 100 mila abitanti. Solo nel 2011 - ultimi dati disponibili - ci sono state più di 1.000 esecuzioni, collocando Manaus al terzo posto per la violenza tra le grandi città in Brasile, dopo Salvador de Bahia e Recife. Qui è nato uno dei potenti cartelli del narcotraffico, il Pcn, "primeiro comando do norte”. In tutto e per tutto simile ai nostri gruppi mafiosi: i capi continuano a comandare dalle prigioni e hanno un gruppo di «almeno sei avvocati che raccolgono informazioni nel sistema giudiziario e nella polizia», racconta un’inchiesta del giornale A Crítica di Manaus. Hanno arsenali con armi da guerra, stringono accordi con i cartelli colombiani, minacciano i magistrati che cercano di processarli. Creano un vero clima di terrore, facendo trovare i cadaveri decapitati nella periferia.

Della storia culturale di Manaus - oggi sepolta dallo sviluppo incontrollato e dalle gigantesche periferie desolate, dove 180 mila persone, secondo dati ufficiali, non hanno acqua in casa - rimane in piedi ben poco. Se l’antico "porto de lenha” non potrà mai essere Liverpool, la Manaus del Teatro Amazonas e degli splendori del fin de siècle ha dimenticato anche la sua origine indigena.

La via principale del centro - la Avenida Edoardo Ribeiro - è stata costruita sull’immenso cimitero dell’ormai estinta tribù locale, i Baré. E il maggiore apporto della cultura italiana, l’opera di un poliedrico conte piacentino, studioso e difensore fino alla fine delle civiltà indigene, è diventato appena una curiosità per studiosi: ad Ermanno Stradelli, autore del primo vocabolario di nhengatu, la lingua franca delle popolazioni autoctone, è dedicata una sola viuzza nel quartiere periferico Sao Jorge. Morì nel 1926 nel lebbrosario di Manaus, dopo aver passato quarant’anni criticando il modello di sviluppo portato dagli inglesi. Gli indigeni lo chiamavano il "dottor Conte” e ancora oggi tramandano la sua storia, divenuta leggenda.

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