Il ministro Marianna Madia ne aveva già annunicato l'approvazione. Ma la firma del capo dello Stato sembra allontanarsi. Il decreto-legge mette mano a un'accozzaglia di norme eterogenee: dai diritti di rogito agli asili nido, dalle Authorities ai poteri anticoruzione affidati a Raffaele Cantone

Doveva essere uno dei fiori all’occhiello del Governo di Matteo Renzi, ma con il passare delle ore prende forma l’incubo del boomerang. La riforma della Pubblica Amministrazione, la cui approvazione fu annunciata dal Ministro Madia ormai oltre dieci giorni fa, non ha ancora un testo ufficiale e per certo la firma del Capo dello Stato sembra allontanarsi; almeno finché non si darà un po’ di ordine a quello che, filtra dal Colle, è ancora un’accozzaglia di norme eterogenee.
Ci pensa intanto il Sottosegretario alla Presidenza, Graziano Delrio, a rincuorare i cronisti sul destino della riforma e assicura piena sintonia con il Quirinale sul decreto “non c’è nessun problema” dice “è tutto finito, tutto a posto”.

Sarà, ma in effetti, a leggere alcune delle bozze circolanti subito dopo l’approvazione, il decreto-legge metteva mano alle materie più disparate: dai diritti di rogito dei segretari comunali, alla riduzione delle consulenze, dagli asili nido nelle caserme dismesse, all’accorpamento delle Authorities.
Il documento
Una delle bozze di riforma della P.A
24/6/2014

Il cuore del provvedimento, invece, in tempi di scandali Expo e Mose, era quello riservato a Raffaele Cantone, nuovo Presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, con un pacchetto di norme per definirne funzioni e poteri e portandogli in dote risorse e competenze della moritura Autorità di vigilanza sugli appalti pubblici.

Proprio su questo ultimo punto, l’ipotesi sarebbe quella di spacchettare in due decreti distinti il contrasto alla corruzione e le altre norme di riforma della PA; non tutte perché, in parte, carenti dei requisiti di necessità ed urgenza, dunque a loro volta assimilabili in un disegno di legge di natura ordinaria.

Una possibile spiegazione al pasticciaccio in corso la dà un anziano dirigente di Palazzo Chigi che ironizza “se l’impiccato si deve scegliere la corda, proverà prima col filo che si spezza”.  Come è noto, infatti, il Consiglio dei Ministri approva in genere solo i princìpi di una riforma, mentre i testi vengono redatti successivamente da uffici legislativi e gabinetti, in questo caso “vittime” sacrificali della rivoluzione renziana sulle rendite di posizione. Una specie di imboscata, insomma, della potentissima lobby di mandarini e giudici distaccati tra Ministeri ed enti pubblici, che avrebbero scritto con penna più pigra le norme auspicate.
Né sembra sia piaciuta sul colle più alto la sicurezza ostentata solo venerdì scorso da Marianna Madia che, sollecitata sul mistero del testo fantasma, aveva detto “nessuna obiezione e nessun rilievo da parte del Quirinale”, garantendo la firma e la pubblicazione in gazzetta già lunedì scorso e omettendo il fatto che gli uffici del Capo dello Stato stavano scandagliando il decreto da oltre una settimana.

Resta il fatto che, con uno spettro così ampio di temi affrontati nel decreto, la discussione in Parlamento si prevede tormentata e a rischio di essere sommersa da valanghe di emendamenti e di impegnare, dunque, tutti i sessanta giorni previsti per la conversione. Come dire, se ne riparla a settembre, con buona pace dell’approvazione lampo, sognata dal Ministro per la fine di luglio.

Per avere un’idea dei problemi pratici sollevati dal decreto c’è ad esempio la questione delle sedi delle Authority. La bozza, infatti, prevedeva che entro il prossimo 30 settembre il Ministero dell’economia avrebbe individuato un edificio “da adibire a sede comune dell’Autorità di regolazione dei trasporti, dell’Autorità per l’energia elettrica, dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni e della Commissione di vigilanza sui fondi pensione”. Rispettivamente collocate a Torino, Milano, Napoli e Roma, come dire una inattesa migrazione di massa, pure costosa, che ha immediatamente provocato la levata di scudi, tra gli altri, del sindaco di Torino, Piero Fassino, e del presidente del Piemonte, Sergio Chiamparino, contro il trasloco coatto della loro authority di città. Obiezioni accolte, se ne riparlerà in Parlamento.

E se gli argomenti della rivolta degli Avvocati dello Stato, cui Renzi e Madia vorrebbero tagliare il 90% dei compensi, con tanto di sciopero minacciato, hanno finito per far breccia sul Colle (secondo pure quanto riportato oggi dal Corriere della Sera), i tanti magistrati in servizio tra gabinetti e incarichi di governo hanno tremato al solo leggere che avrebbero dovuto reindossare la toga, perché il decreto vietava loro il “ricorso all’istituto dell’aspettativa”.

Chi, ancora, dopo la prevedibile infiammata polemica iniziale, resta sulla sponda del fiume godendosi lo spettacolo del garbuglio PA sono i Sindacati: dopo quasi due settimane non hanno ancora in mano un testo da discutere e aspettano di capire cosa accadrà dei permessi sindacali che il decreto vorrebbe “ridotti del cinquanta per cento” per ciascuna organizzazione.

Certo è che Matteo Renzi, nel suo discorso di insediamento, aveva promesso di presentarsi all’appuntamento del Semestre con anche la riforma della Pubblica Amministrazione avviata, mentre oggi, sempre alla Camera, per presentare gli indirizzi dell’esecutivo nei sei mesi di guida europea, l’abbattimento del leviatano burocratico sfuma, innominato, nella sfida al Parlamento dei “mille giorni”  per cambiare l’Italia e l’Europa.