E' uno dei volti più famosi della Cina di oggi. Ne incarna fascino e ambizioni, durezze e contraddizioni. L'attrice torna sul grande schermo. Ed è di nuovo magia

Se i Red Hot Chili Peppers ti dedicano una canzone, e in sostanza ti dicono “Baby, qualcuno dice che tu ti prendi gioco di me, che me l’hai fatta sotto il naso/ altri dicono che tu mi odi ma non m’importa/ io non ci credo che tu sei così, e ti aspetto sempre”, probabilmente sei -minimo minimo- una donna che fa colpo. Nel caso di Gong Li, questo vuol dire davvero tenersi bassi. Perché lei non ha colpito soltanto l’immaginario dei Red Hot e del loro sexy frontman Anthony Kiedis. Gong Li è, tout court, una delle donne più belle del mondo, capace di sedurre indifferentemente platee dell’est e dell’ovest. Una delle rare icone davvero globali di oggi, uno dei non moltissimi nomi cinesi familiari a tutti. C’è riuscita grazie a un mix perfetto di talento e splendore.

A 48 anni, nonostante la pletora di bellezze cinesi radiose che l’incalzano (giunchi d’acciaio come Li Bing Bing, Ziyi Zhang, Dong Jie, Isabella Leong) è pur sempre lei a rappresentare la seduzione delle donne orientali nel nostro immaginario. Come simbolo di bellezza, non a caso scelta come volto da L’Oréal Paris, e come attrice capace di interpretare ruoli complessi e perturbanti.
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All’ultimo festival del cinema di Cannes Gong Li ha portato “Coming Home”, il film che l’ha vista di nuovo diretta dal suo regista pigmalione, Zhang Yimou, con cui ha a lungo formato - nell’arte e nella vita - la coppia più celebre del nuovo cinema cinese. Un ruolo per cui ha accettato di invecchiarsi e imbruttirsi per entrare credibilmente nella pelle di una donna che attende così a lungo il ritorno del marito, strappatole negli anni della Rivoluzione Culturale, da non essere più in grado di riconoscerlo quando lui le torna accanto. Una donna sfiorita anche mentalmente, che attende un eterno ritorno impossibile, metafora di tutto quello che è andato perduto.

Non è il primo ruolo per il quale si è deliberatamente disfatta della sua bellezza. L’abbiamo vista, per esempio, contadina impacciata dalla gravidanza e dai vestiti goffi in “La storia di Qiu Ju”, del ’92. Ma per tutti resta folgorante nella parte tormentata che recitò in “Lanterne Rosse”, altro film di Zhang Yimou, del ’91, dove era la quarta moglie, o concubina, di un ricco signore. In una sinfonia di rossi, dagli abiti agli arredi, l’attrice raccontò la spietatezza della condizione femminile di quei tempi, e non solo.

Gong Li ha lo sguardo giusto per dirci di questo. È donna di bellezza morbida e sensuale, in modo quasi singolare per un’asiatica, ma non è rassicurante. Non è una Monica Bellucci d’oriente: la malinconia è piuttosto la sua cifra, anche nelle interpretazioni più drammatiche o erotiche: come i suoi ruoli in “Memorie di una geisha”, “Addio mia concubina”, “2046”, oppure “La città proibita”.

Gong Li, che cos’è per lei la bellezza? Che parte ha avuto nella sua vita?
«La bellezza, per me, non ha mai a che fare con il solo aspetto. È tutta la persona. Bello è ciò che appariamo e ciò che siamo, credo davvero che sia la nostra interiorità. È legata perfino a come siamo capaci di fare il nostro lavoro, alla bellezza che siamo capaci di trarne. Credo di essere stata scelta come “egerie” da L’Oréal Paris anche per questo: perché tutto quello che faccio, nella vita e nel lavoro, ha a che fare con la bellezza».

Il suo, forse, è un concetto orientale di bellezza. Diverso dal nostro.
«In realtà temo che stiamo diventando sempre più simili. Le cose in Cina stanno cambiando moltissimo. Faccio un esempio: negli anni Cinquanta le donne cinesi amavano indossare un lungo abito, il “qipao”. Tradizionale, ma non per questo troppo pudico: anzi, il suo profondo spacco laterale rivelava molto del corpo, era estremamente sensuale e femminile. A quei tempi, però, questo non bastava: l’educazione di una donna contava moltissimo. Era ritenuto importante che ricevesse un’istruzione adeguata, che sapesse come muoversi nel mondo, alla bellezza esteriore doveva assolutamente accompagnarsi la bellezza dello spirito. Esteriorità e interiorità meritavano la stessa cura. Ma oggi? Le ragazze cinesi di oggi lavorano, passano tante ore in ufficio, e sono sempre più simili alle occidentali. Certo, per noi cinesi resta ancora fondamentale l’interiorità, l’educazione, ma almeno in superficie stiamo diventando sempre più simili agli standard occidentali: è uno dei problemi della globalizzazione. I modelli finiscono per assomigliarsi, le donne cinesi finiscono per diventare sempre più simili alle occidentali. Però mantengono ancora qualcosa di questo concetto cinese di bellezza, di questo ideale».

Un misto di pudore ed erotismo.
«È legato all’educazione che riceviamo. Noi siamo educate a non mostrare mai troppo. Non esibire molto il nostro corpo fa parte integrante di noi, della nostra storia, dell’educazione che ancora oggi ci viene data».

Che cosa le ha insegnato sua madre sulla femminilità?
«Mia madre era una professoressa universitaria, cosa molto rara ai suoi tempi: non erano affatto numerose le donne istruite come lei, che avevano avuto accesso a una tale educazione. Lei mi raccontava che ai tempi della sua gioventù, parliamo degli anni Trenta e Quaranta, le donne sfoggiavano la loro bellezza sottolineandola con gioielli per esempio, ma per lei era invece molto più importante la bellezza interiore. Quella che veniva ben prima della superficie. Mia madre mi ha insegnato che sarebbe stata la cultura a farmi bella. Mi diceva che sarei dovuta andare all’università, che avrei dovuto fare del mio meglio per conquistare la migliore cultura possibile: quella era la bellezza da coltivare, quella la cosa più importante per una donna, anche se la più difficile. Bellezza e ricchezza interiore. Lei, per dire, non si è nemmeno mai fatta bucare le orecchie: per non dover portare orecchini. Ancora oggi debbo a mia madre questo insegnamento: bellezza è essere il più semplice possibile. La bellezza è un dono, che va custodito con naturalezza».

Che educazione ha ricevuto? Si definirebbe confuciana?
«Il confucianesimo esiste in tutta l’Asia, in Cina come in Corea o in Giappone. A scuola dobbiamo imparare la storia cinese, e nel fare questo studiamo il confucianesimo, lo interiorizziamo. Io credo che la sua lezione fondamentale sia quella di tenere per noi stessi le cose che accadono. Di non reagire immediatamente alle cose, di lasciare anzi che si sedimentino in noi, restino nel nostro mondo interiore. È proprio questo, secondo me - il tenere celate in sé le cose, il non reagire epidermicamente, clamorosamente, vistosamente, immediatamente alle cose - una delle differenze più profonde tra asiatici e occidentali. Per me, questo è comunque un insegnamento valido per tutti: riflettere prima di agire, meditare senza farsi sopraffare dalle emozioni. Lasciare che l’azione segua naturalmente il pensiero».

Lei è, per noi, un simbolo della Cina d’oggi. Che valori vuole rappresentare da questo punto di vista?
«Non voglio rappresentare nulla, salvo una cosa. I miei genitori erano entrambi insegnanti, ed io ero la più piccola tra i miei fratelli, che oggi sono tutti o insegnanti o medici. Anni fa io dissi ai miei genitori, “Non sarò né medico né insegnante, voglio lavorare nelle arti”. E loro - cosa incredibilmente audace e moderna per i loro tempi - mi diedero la libertà di fare e di essere ciò che volevo. Sono andata all’università nel 1985, e in quegli anni i miei coetanei davano ancora molto ascolto ai loro genitori, facevano quello che i genitori si aspettavano che loro facessero. Io ero forse la sola a potermi esprimere come volevo, ad avere quella libertà. È questo ad aver fatto di me quello che sono. Ha forgiato la mia personalità, la mia indipendenza. Oggi sono una donna avventurosa, curiosa di esperienze e conoscenze, disponibile al nuovo. Sono aperta a scoperte e tentazioni».

Forse i suoi genitori non si sono opposti perché sapevano che il cinema può essere un potente mezzo educativo... «Onestamente non credo avessero guardato così avanti. Quando gli ho detto che volevo diventare un’attrice hanno esitato moltissimo. Ma per altri motivi rispetto a quelli cui può pensare lei. A quei tempi, e in fondo ancora ora, l’ideale tradizionale di bellezza femminile, in Cina, era questo: occhi grandissimi in un viso molto piccolo, bocca altrettanto piccola. Io, di sicuro, non incarno quell’ideale di bellezza classica cinese. Insomma, i miei genitori temevano che io non fossi abbastanza bella per il tipo di carriera che mi ero messa in testa. Quello che mi hanno detto perciò è, “Sii molto paziente, tieni duro, combatti con tutte le tue forze, non ti scoraggiare. Anche se non ce la farai ad entrare in questo corso universitario per attori, potrai sempre diventare una insegnante di teatro o di musica. È probabile che tu non diventerai un’artista, ma potrai insegnare agli altri come diventarlo”».

L’hanno sottovalutata, visto il successo che ha avuto... Si considera una donna di potere?
«Questa oggi è una espressione molto in voga. In Cina diciamo “female man”, “una donna-uomo”, per indicare una donna molto forte. Cosa sono io? Una perfezionista. Una donna che da sé esige sempre il massimo, che combatte molto, che si impegna duramente. Sono molto determinata e ho molta volontà: voglio essere la migliore e avere i film migliori. Ma certo non dipende tutto da me, conta il lavoro di squadra. Comunque la mia filosofia è che per avere il meglio devi essere il meglio. Bisogna essere nel migliore team possibile per cercare di avere la storia e il ruolo migliore, e spesso non basta nemmeno questo. Io sono molto esigente con me e con chi mi lavora vicino. Nella vita quotidiana invece sono molto più easy, me la prendo con più calma e serenità». Cosa dà più potere, il sesso, il cervello o il denaro? «Se hai un bel cervello, puoi avere il sesso e il denaro. Tutto quello che vuoi». Il film che ha portato a Cannes, “Coming home”, le ha dato un ruolo molto difficile. Qui è una donna fragile, che sperimenta il decadimento, che perde la memoria. Come ha fatto a calarsi in un personaggio così drammaticamente diverso da lei? «Ho accettato il ruolo proprio perché è molto difficile: era una sfida che non potevo non cogliere. A me le sfide piacciono molto. Questa parte mi è costata un grandissimo sforzo: abbiamo avuto soltanto quattro mesi per girare, quattro mesi per me per calarmi in questa donna che perde tutti i suoi ricordi. Ma avevo un regista meraviglioso accanto, Zhang Yimou, e un copratogonista altrettanto straordinario. È la squadra che costruisce la storia e i personaggi, tanto più in così poco tempo. Per prepararmi alla parte ho passato un mese in un ospedale per malati di mente. Volevo capire come vivono, agiscono, si comportano le persone che perdono la memoria. Ma questa resta una storia d’amore, e l’amore va oltre qualunque tempo e qualunque luogo. L’amore non cambia». Questa memoria perduta è simbolo anche d’altro? «Mentre giravo pensavo a un mio amore perduto del passato. A qualcuno che se ne era andato davvero, per sempre. Un uomo che era appena mancato, e che non mi ha amato. Io credo che la storia di questa donna, che dai 40 fino agli 80 anni aspetta che il suo amore torni, oggi sarebbe impossibile. In Cina e nel resto del mondo: impensabile questa pazienza nell’attesa del ritorno di un amore. E forse è un bene dimenticare, dimenticare i dolori che gli amori provocano. È un bene ricordare soltanto il buono di un amore, e restare innocente del dolore che, invece, può provocare». Tutti i personaggi dei suoi film ci mostrano quanto possa essere difficile essere donne. Eppure sono anche personaggi fortissimi. Una contraddizione? «Molto dipende dai registi. Io ho lavorato con tutti i grandi registi della “quinta generazione” cinese, a partire da Zhang Yimou e Chen Kaige, e questa generazione vuole mostrare il volto nuovo della Cina e delle sue donne. Perciò racconta le donne come una volta si faceva soltanto con i personaggi maschili: con intensità e profondità. Loro trattano i ruoli femminili come farebbero con quelli maschili, forse anche perché sanno che io ho questa forte personalità. Sanno che posso impersonare la forza delle donne, anche quando il contesto è difficile. Ho interpretato questo tipo di donna perfino nei film girati a Hollywood, come “Miami vice” o “Memorie di una geisha”». Saranno le donne la prossima rivoluzione della Cina? «Io lo spero».