L'infertilità? "Una malattia che va assolutamente inserita nei livelli essenziali di assistenza". Perché riguarda la vita di migliaia di coppie. Che negli ultimi dieci anni hanno dovuto lottare, fra giudici e sentenze, per vedersi riconosciuta una speranza. La paladina della lotta contro la legge 40 indica cosa resta da fare

Filomena Gallo
Filomena Gallo è una delle paladine più note della lunga (decennale ormai) battaglia contro la legge del 19 febbraio 2004, quella che ha imposto limiti e divieti alla procreazione medicalmente assistita e alla ricerca scientifica sugli embrioni in Italia. Dalla sede del partito Radicale di Roma (nel pieno del quartiere politico del ghetto, a due passi dalla rossa via delle Botteghe Oscure e dalla crociata piazza del Gesù), ribadisce la posizione sostenuta dal suo partito e dall'associazione Luca Coscioni – un'organizzazione, ricorda, che ha come obiettivo «Portare i malati al cuore della politica» - «L'infertilità e la sterilità sono malattie. Come riconosce l'Organizzazione mondiale della sanità», dice: «E dovrebbero per questo essere inserite nei livelli essenziali di assistenza (Lea)».

Quindi? È lo Stato che deve pagare per permettere alle coppie infertili di avere figli?
«Assolutamente sì»

Perché?
«Perché deve garantire l'accesso a un diritto. In questo caso, quello dalla cura all'infertilità»

Cosa dovrebbe fare il Parlamento, anche alla luce di quest'ultima sentenza della Corte, che rimuove il divieto di fecondazione eterologa?
«Innanzitutto, cosa non dovrebbe fare: non pensi qualche formazione politica ora di ricominciare un nuovo iter per una nuova legge che imponga nuovi limiti, dopo le varie sentenze che hanno smantellato la legge 40».

Cosa servirebbe invece?
«Ci sarebbe piuttosto bisogno di un intervento politico per anticipare la rimozione degli ultimi divieti rimasti: quello che riguarda le ?coppie fertili ma portatrici? di patologie genetiche, sul quale la corte costituzionale deciderà credo entro fine anno, e quello che impedisce di usare gli embrioni non idonei per la ricerca scientifica».

Quali sono oggi le conseguenze del fatto che l'infertilità non sia riconosciuta “ufficialmente” come patologia?
«Sono principalmente burocratiche. Riguardano ad esempio i permessi di lavoro, che non sono concessi quando si è sotto trattamento – se non barando sulle cause – oppure i codici ospedalieri. Un prelievo di ovociti, ad esempio, deve passare come “Cisti ovarica”, quando non lo è. Praticamente si avalla un falso in atto pubblico. E poi riguarda la percezione, l'accettazione condivisa che si ha di questa malattia»

Cos'altro manca, secondo lei, in Italia?
 «Ribadisco: la nostra richiesta è quella di aggiornare i Lea. Ma si dovrebbe anche investire in serie campagne di prevenzione. Previste anche dalla legge 40, ma mai sostenute».

Perché è così importante la prevenzione?
«Perché l'infertilità in Italia è ancora un argomento tabù. Non esiste il concetto di “preservazione” della propria fecondità. Per gli uomini basterebbe una visita andrologica: oggi l'abitudine è farla solo quando ci sono problemi, mentre le donne da tempo sono abituate a rivolgersi al ginecologo anche per controlli di routine»

Sono i tabù ad aver vinto fino ad oggi in parlamento?
«Non solo i tabù. Ma proprio le posizioni più conservatrici dei movimenti per la vita. Per questo dico: lasciamo stare il parlamento. Che tutto torni come prima: quando a decidere le cure da applicare erano il codice deontologico medico e le linee guida sanitarie»

Non serve secondo lei una legge sulla procreazione assistita?
«No, se non per togliere gli ultimi divieti. Fino al 2004 siamo stati senza, e le terapie c'erano, le famiglie avevano accesso alle cure»

Ma si parlava anche di “Far west” procreativo.
«Balle. I miti diffusi all'epoca del primo censimento delle strutture, promosso da Rosy Bindi nel 1997, si sono rivelati tutti falsi»

Di che miti parliamo?
«Ah, i giornali parlavano di uteri surrogati, di fecondazioni post mortem, di mamme nonne. Tutti rarissimi casi poi smontati dai tribunali».

Ma secondo lei non dovrebbe allora il Parlamento per lo meno garantire dei limiti a tutela dei pazienti?
«Certo, sarebbe giusto. Se prendessimo esempio dall'Argentina però, che ha fatto a proposito una delle migliori leggi possibili, dove garantisce l'accesso alla procreazione assistita a tutti coloro che ne hanno bisogno, impegnando lo Stato a vigilare sulle tecniche»

Perché non una legge allora?
«Perché ogni volta che andavamo a bussare, in questi anni, e in quelli precedenti al 2004, da deputati e senatori con le nostre proposte di legge a tutela dei pazienti, ci veniva risposto: “Non è il momento”, “Procreazione medicalmente assistita? Non è una priorità, non ora”. L'unico fronte ad avere a cuore questi temi è quello trasversale dei cattolici. Questo è ciò che ci preoccupa».

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