Il docufilm di Nick Ryan racconta una delle spedizioni più disastrose della storia dell'alpinismo moderno: quella del 2008 sul K2. Un film pieno di interrogativi etici

“Se avessero rinunciato, avremmo avuto un solo morto, anziché undici. Se solo avessero rinunciato”.
E’ Pemba Gyalje, lo sherpa sopravvissuto, a fornire una chiave di lettura - non l’unica, certo - della più grande tragedia dell’alpinismo himalayano dei nostri tempi, che “The Summit” racconta in una docufiction a tratti inebriante, a tratti angosciante.

Il K2 è la seconda vetta più alta del mondo, ma sbaglia chi crede che sia seconda all’Everest. Certo, le misurazioni parlano chiaro: 8.848 metri contro 8.611. Ma i tempi pioneristici di Reinhold Messner sono ormai archeologia: oggi, sull’Everest si sale in fila indiana, a centinaia. “Anche per festeggiare il compleanno, ormai”.

[[ge:rep-locali:espresso:285501188]]Il K2 è tutt’altra cosa. Sfida vera, dirà qualunque alpinista. E un altissimo tributo di vite umane, non a caso.
Agosto 2008. Da oltre un mese, gruppi di scalatori provenienti da una mezza dozzina di nazioni stanno attrezzando con le corde la salita sino alla vetta. Qualcuno conta di arrivare lassù senza le bombole d’ossigeno, altri confidano nell’aiutino. Bisogna prepararsi, acclimatarsi. Soprattutto, aspettare il momento giusto. A 8.200 metri c’è il famigerato collo di bottiglia, un seracco alto cento metri. Un’autentica roulette russa.

Ma il primo agosto è un giorno perfetto, di quelli che ti capitano forse una volta al mese. Sono in molti ad aspettarlo, al campo base. Il climbing leader (il coordinatore delle spedizioni) si è ammalato, qualche incrinatura nell’organizzazione già si intravvede ma niente può fermare la sete di conquista. E allora via, verso il sole abbagliante e il blu di quel cielo sempre più vicino. Ci sono settanta alpinisti, in zona: fanno parte di quindici diverse cordate. Tutti sanno cosa li aspetta. La parola d’ordine è una: “respect”. La montagna, devi saperla rispettare. Ma può anche non bastare.

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The Summit” ha fatto incetta di premi un po’ ovunque. Mentre scorrono le immagini, ti chiedi quanta parte di fiction contenga, perché è così drammaticamente realistico che potresti anche pensare che sia un “semplice” documentario. Gli alpinisti moderni sono equipaggiati con fotocamere e telecamere d’alto livello. Gli sponsor hanno fame di immagini. Di prove. Ed è proprio così che è andata: tutti a filmare, e scattare. Un selfie sulla vetta del K2, vuoi mettere?

Solo il venti per cento del film è frutto di ricostruzione: il regista irlandese Nick Ryan si è spostato sulle Alpi Svizzere, sui ghiacciai a 3700 metri di quota. Se non fosse per i continui flashback con cui sopravvissuti e parenti delle vittime raccontano l’accaduto, sembrerebbe proprio di essere lì, in presa diretta. Salgono in gruppo, uno dietro l’altro. Sono in venticinque, tra alpinisti e portatori. Ritmi diversi, preparazione diversa. In troppi, lassù. “Così dipendi dagli altri. E’ più difficile mantenere la concentrazione”.

Sul maledetto collo di bottiglia, un alpinista serbo non assicurato perde l’equilibrio e precipita. Scompare, semplicemente. Il suo portatore pachistano, nel tentativo di recuperarne il corpo e portarlo più a valle, scivola a sua volta nel nulla.

“The Summit” è pieno di interrogativi etici. Che senso ha, cercare di recuperare un cadavere a ottomila metri di quota? E ha senso proseguire, dopo una disgrazia? Ryan gira la domanda a chi è tornato a casa. C’è un codice d’onore, lassù? O è solo “summit fever”? La risposta è implicita: si va avanti. Sei lì per questo. Ormai non puoi più fare nulla per chi non c’è più. E sul K2 non ci si ferisce: si vive o si muore.

I rimandi alla mitica spedizione italiana del 1954, di cui proprio in queste ore ricorrono i sessant’anni, sono continui. Nel film, Walter Bonatti racconta di se stesso e dei due trionfatori: Achille Compagnoni e Lino Lacedelli. Anche lì, polemiche a non finire, ricostruzioni su ricostruzioni e dibattiti che ancora oggi tormentano il mondo delle grandi imprese alpinistiche.

K2, primo agosto 2008. Sulla vetta, arrivano in diciotto. Stanchi, stremati. In grave ritardo sulla tabella di marcia. Issano la propria bandiera, si abbracciano, scattano foto. Si riempiono gli occhi di quella vista straordinaria. Ma vedono anche l’oscurità che avanza, e sembra proprio un brutto presagio perché ora bisogna scendere. E fa freddo. E presto sarà buio. Contro di loro gioca la stanchezza, il rilassamento post-conquista. La statistica. E gli errori, come quelle corde fisse che c’erano all’andata ma ora non ci sono più, spazzate via come fuscelli da una poderosa frana di ghiaccio che nel frattempo ha ucciso un altro alpinista. Bisogna scendere con ramponi e piccozza. Oppure bivaccare in quota per cercare di scendere alle prime luci dell’alba. Ma senza chiudere gli occhi, “perché se ti addromenti sei morto”.

Come è andata, lo dicono le cronache dell’epoca e lo vedrete direttamente nel film: i morti saranno undici, alla fine. Compresi due fratelli sherpa, spediti in quota dal capo-spedizione coreano nel tentativo di recuperare tre suoi connazionali, morti o feriti.

“Loro pagano, e per questo credono di poter disporre anche delle nostre vite”. Assieme all’autore Mark Monroe, il regista Ryan cerca di restare attinente ai fatti. Ma il tema è noto: chi sopravvive, racconta ciò che crede, in buona o cattiva fede. E’ la storia delle grandi imprese alpinistiche, delle grandi tragedie. Tra gli scampati c’è anche l’italiano Marco Confortola. Accusato di aver fornito più versioni, racconterà la sua versione in un libro.

Alla fine del film, resta l’immagine di Pemba, lo sherpa ritrovatosi per caso capo-spedizione. A guardare metaforicamente, con grande calma interiore, a quegli occidentali affamati di vette. “Summit fever”, sì. Con un altissimo prezzo da pagare.