Dal 2006, quando “l’Espresso” indagò sugli schiavi dei pomodori in provincia di Foggia, le dimensioni della baraccopoli sono addirittura triplicate

Il ghetto di Rignano Garganico è ancora lì a ricordare che in Puglia, come in altre regioni, non si incrociano soltanto le rotte del lavoro irregolare. Dal 2006, quando “l’Espresso” indagò sugli schiavi dei pomodori in provincia di Foggia, le dimensioni della baraccopoli sono addirittura triplicate. Ogni anno la Regione, i sindacati e alcune organizzazioni di agricoltori si impegnano nell’assunzione in regola dei lavoratori stagionali, in cambio di incentivi economici, e nella loro ospitalità in tende gestite dalla Protezione civile.

[[ge:rep-locali:espresso:285129685]]Ma il Ghetto di Rignano continua ad attrarre quanti hanno trovato lavoro in zona, oppure i profughi africani arrivati da pochi mesi. Come Lamine, 23 anni, partito dal Gambia, soccorso in mare e sbarcato nel settembre 2013 a Palermo: «Sono venuto qui perché non sapevo dove andare», racconta: «Un amico mi ha detto di raggiungerlo perché con la raccolta dei pomodori o con la vendemmia qualcosa da guadagnare si trova». E come vive adesso? «La solidarietà tra africani. Chi ha un lavoro dà da mangiare a chi è senza».

La regione, nel progetto chiamato «Capo free, Ghetto off», ha appena allestito cinque tendopoli da 250 posti per ospitare i braccianti e avviarli a contratti regolari. Ma anche questo rischia, come altri progetti del passato, di non raggiungere l’obiettivo: che è anche quello di evitare che le immagini di questa vergogna arrivino all’estero, come lo scorso anno quando in Francia e in Norvegia molti consumatori hanno boicottato la salsa italiana. Nel frattempo il Ghetto è ancora abitato da almeno mille persone, tra le quali alcune famiglie con bambini arrivate dalla provincia di Caserta per raccogliere pomodori.

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Non solo immigrati, tra i nuovi schiavi ci sono anche italiani
22/8/2014
Gli africani sbarcati a migliaia in Sicilia negli ultimi mesi, ad esempio, non possono ottenere un contratto regolare. Ecco perché, secondo gran parte degli abitanti, ben pochi se ne andranno nelle tendopoli: per loro e per quanti già in Italia sono diventati irregolari per avere perso il lavoro, la baraccopoli non rappresenta un mercato per lo sfruttamento della manodopera ma un punto di soccorso per sopravvivere. Grazie ai “capineri”, i caporali africani, anche se trattengono 50 centesimi per ogni cassone da tre quintali di pomodoro riempito a cottimo. Dieci, dodici cassoni al giorno per ogni operaio fanno più di 5 euro di guadagno a persona. Moltiplicati per gli oltre mille abitanti, danno l’idea del giro d’affari. Sia per i caporali, sia per i coltivatori fantasma, gli imprenditori italiani che pagano anche meno di 20 euro a giornata, pur rischiando oggi l’arresto. «È triste ammetterlo», dice un bracciante del Mali che chiede l’anonimato, «ma senza alternative, per quelli come me che non possono più rinnovare il permesso di soggiorno, i caporali sono l’unica risorsa per mangiare».

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