Gino Paoli il 23 settembre compie 80 anni. Cantautore di grande successo ma anche, per il suo percorso di spirito libero, abrasivo cronista dell’Italia dal dopoguerra ad oggi. «Non amo né celebrazioni né mondanità. Mi sta venendo solo voglia di inviare un telegramma collettivo a tre stelle dello spettacolo che entro il mese toccheranno il mio stesso traguardo: Sophia Loren, Ornella Vanoni, Brigitte Bardot. Così, per senso di compartecipazione…».
Nato a Monfalcone, dove il padre (toscano e ingegnere) lavorava nei cantieri navali, ha trascorso quasi tutta la vita a Genova. La città che ha lasciato un’impronta indelebile nella sua formazione artistica. «I primi ricordi sono legati alla divisa da balilla che da bambino dovevo indossare a Pegli, dove la mia famiglia si era trasferita. Del fascismo non ho altra memoria. Come dice Paolo Villaggio, la nostra generazione è arrivata troppo tardi per vivere la tragedia della dittatura e troppo presto per essere protagonista del Sessantotto. Ma della guerra mi trascino le stimmate. Mi è rimasta la confidenza con la morte. Avevo appena dieci anni quando per tornare dopo un bombardamento a casa dal paesino dove eravamo sfollati dovetti attraversare uno spiazzo con centinaia di cadaveri».
Lei è sempre stato un uomo di sinistra. Quando ha cominciato a interessarsi di politica?
«Tardi, quando nel ’60 mi unii a Genova ai cortei di protesta contro il governo di Fernando Tramboni che aveva aperto ai neofascisti. Alla fine della guerra ero ancora troppo piccolo. Pensavo alle ragazze e a divertirmi. Di politica non si parlava neanche in famiglia. I genitori erano gelosi delle proprie idee. Scoprii solo chiacchierando con un amico che mio padre era stato un militante del Cln. Appresi anche in ritardo che alcuni parenti di mia madre erano stati vittime delle foibe. Con l’arrivo degli americani ebbi però la prima presa di coscienza. Potevo scegliere di leggere qualsiasi libro, di sentire qualsiasi disco. Capii cos’era la libertà. E il valore del senso di uguaglianza. In questo senso mi definisco ancora un comunista».
La vocazione artistica quando è maturata?
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Scriveva già canzoni?
«L’interesse per la musica l’avevo ereditato da mia madre che suonava il piano. Avevo studiato nella stessa scuola di Luigi Tenco e Bruno Lauzi. Nessuno di noi progettava però di fare il cantante. Sono diventato un divo per caso. All’inizio ero intrigato dalla poetica degli chansonnier francesi, quel fil rouge che collega François Villon a Charles Trenet. Quando nel ’60 andai alla Ricordi per far ascoltare “La gatta” non cantavo neanche tanto bene. Di quel brano autobiografico, che sarebbe poi diventato un successo, furono stampate solo 180 copie. Non ero neppure iscritto alla Siae e per depositare il testo mi fece da prestanome Mogol. Che mi portò anche dal compositore Carlo Alberto Rossi per proporgli “Il cielo in una stanza”. Al termine dell’audizione mi venne consigliato di cambiare mestiere. Per fortuna il brano che si ispirava all’orgasmo in un bordello piacque a Mina. Nemmeno i primi riconoscimenti mi illusero. Prima di lasciare l’agenzia di pubblicità chiesi una lettera di referenze che, nel caso di un flop con le canzonette, mi avrebbe potuto aiutare nella ricerca di un nuovo impiego».
E' a quel punto che incrocia la sua strada con Ornella Vanoni.
«Fu un buffo incontro. La vidi nel ’61 nelle stanze di una casa editrice e dissi a Ricky Gianco: “Che bel pezzo di figa”. E lui: “Lascia stare, è lesbica”. Anche lei mi aveva notato e domandò a un dirigente: “Carino quel ragazzo, chi è?”. E lui: “Perdi tempo, è frocio”. Ci rivedemmo poi alla Ricordi e lei che cantava le storie della mala mi chiese di scriverle un brano che composi in mezzora. Nacque un sodalizio artistico. E poi una relazione sentimentale. Un rapporto incasinato. Ornella è una bella persona, ma può diventare insopportabile. Nell’85 abbiamo ricostituito la coppia per un recital. Recitavamo così bene che perfino mia madre temette che la storia fosse ricominciata. “Non ti rimetterai con quella lì?”, si preoccupò. La passione si era soltanto tramutata in affetto. Ho avuto tre mogli che mi hanno dato quattro figli. Sto insieme con Paola, la mia attuale consorte, da 45 anni. Ma non riesco mai a sciogliermi dalle donne a cui ho voluto bene».
E poi incontra Stefania Sandrelli.
«La conobbi nel ’62 alla Bussola di Viareggio. Dove cantavo e avevo cominciato a bere per una sfida a Sergio Bernardini, proprietario del locale, che mi sfotteva perché mi piaceva il latte. Per una ventina d’anni mi sono scolato una bottiglia di whisky al giorno. Fino a che ho detto basta. Come per la droga. Ho un carattere che non accetta dipendenze. Stefania, una donna trasparente come l’acqua, era minorenne e fra noi scoppiò un grande amore. Rimase incinta e fu subito scandalo anche perché pure mia moglie aspettava un bambino. Per sottrarci alla morbosità decidemmo di far nascere Amanda a Losanna».
Lo scandalo non pregiudica la sua popolarità.
«Le ragazze che un tempo mi schifavano pendevano dalle mie labbra. Mi ero pure montato la testa diventando un po’ stronzo. Per fortuna a riportarmi alla realtà c’erano gli amici della mafia genovese, come ci definisce Antonio Ricci. Lo sport preferito era quello di prenderci in giro. Quell’estate andai a Capo d’Orlando e lì, libero dai pensieri, scrissi “Sapore di sale”. Ispirandomi non alla Sandrelli, contrariamente a quel che si scrisse, ma a Ursula Andress che usciva dal mare in un film di 007. La canzone voleva essere uno spartiacque. Stava finendo il boom e iniziava per l’Italia una stagione più drammatica».
Anche per lei. L’anno dopo tentò il suicidio.
«Non mi sparai perché ero travolto dai problemi. Anzi, ero all’apice della fama e avevo tutto. Lo feci per noia. E per sfida. L’uomo non sceglie né quando nasce né quando muore. Togliersi la vita è l’unico arrogante modo per decidere del proprio destino. Ma la pallottola si conficcò nel pericardio. Ed è ancora là. Fu un segno. Non era la mia ora. Dopo, ho capito che è stato meglio così».
Quattro anni dopo si uccise il suo amico Tenco.
«Non credo che volesse farla finita. Quando mi sparai io, accorse all’ospedale e disse arrabbiato che gente come noi non poteva suicidarsi. Penso che prima di premere il grilletto si fosse impasticcato».
Siamo alla vigilia del Sessantotto.
«Una rivoluzione troppo giovanile per me che avevo 34 anni. Musicalmente, intanto, erano esplosi i Beatles. Un gruppo straordinario che segnò una svolta. Era anche il momento della canzone politica. Ma non mi lasciai influenzare. Frequentavo pochi colleghi: Bruno Lauzi, l’amico che più mi manca, Fabrizio De Andrè, Umberto Bindi, Lucio Dalla. Andavo ai festival dell’Unità ma rimanendo fedele al mio repertorio. Risi di gusto quando Leo Ferrè, alle domande di un cronista sul ’68, replicò: “E' l’anno in cui mi ha lasciato mia moglie’’».
Ed eccoci agli albori del terrorismo.
«Lo vidi crescere a Genova. Conoscevo alcuni teorici dei movimenti. Cercavo anche di comprendere le loro ragioni. Ma rimasi disgustato quando spararono a due carabinieri che avevano appena finito il loro servizio di guardia all’ospedale. La pensavo come Pier Paolo Pasolini. Poi ci fu l’assassinio di Aldo Moro. Uno choc. Era un’Italia livida, impaurita».
Questo periodo coincide con una fase di riflusso della sua carriera.
«Non mi andava più di cantare. Mi ritirai a Levanto dove amministravo un locale. Furono i giovani comunisti a restituirmi la voglia di palcoscenico. Gianni Borgna mi propose un concerto a Roma. Quando al Pincio mi trovai al cospetto di 15 mila persone fui preso dal panico. Ma fu un successone. Avevo ritrovato il mio pubblico. Che ha continuato a seguirmi fino a oggi quando mi diletto con il jazz».
E arriva l’ora dell’impegno politico.
«Sì, nell’87 il Pci mi offrì di entrare come indipendente nelle liste per la Camera e io che avevo il mito di Enrico Berlinguer e stima di Massimo D’Alema e Walter Veltroni finii per accettare. Gli amici di Genova organizzarono una cena per farmi desistere. Il più sferzante fu Renzo Piano che conosco dai tempi dello scoutismo. Lui mi chiama Claudio Villa, io l’ho soprannominato il geometra. Mi sono vendicato quando Giorgio Napolitano l’ha nominato senatore a vita: “Geometra”, gli ho scritto, “adesso nella merda sei tu”. Fui eletto nella circoscrizione di Napoli. Presentai alcuni progetti di legge che furono insabbiati. E capii che la politica non faceva per me. E’ l’arte del compromesso e io sono troppo schietto. Approvai Achille Occhetto quando liquidò il Pci. Ma poi l’operazione fu gestita male: un eccesso di liberalismo nel vecchio ceppo del comunismo».
Scoppia Tangentopoli e Bettino Craxi fugge in esilio.
«Tangentopoli per me non fu una sorpresa. In Parlamento avevo capito quanto fosse diffusa la corruzione. Craxi per me era un mistero. Il dottor Jeckill e mister Hyde. In aula pronunciava discorsi che mi mandavano in bestia. Poi mi incontrava in ascensore ed era di una gentilezza squisita. Un leader spregiudicato ma aveva ragione quando chiamò sul banco degli imputati tutti i partiti per le ruberie della politica».
Inizia la lunga stagione berlusconiana.
«A Silvio Berlusconi rimprovero due cose. Aver distrutto la destra che è necessaria in una democrazia e aver mercificato tutto. L’elettorato è stato ipnotizzato dalle sue promesse. L’italiano, che nel fondo resta cattolico, ha bisogno anche in politica dell’uomo della provvidenza. Romano Prodi, che è una persona per bene, non è riuscito a contrastarlo perché veniva rappresentato come una macchietta».
Siamo ai nostri giorni. Dominati dalle figure di papa Francesco, Matteo Renzi e Beppe Grillo.
«Per me papa Francesco è troppo perfetto. Ma ammetto che io non mi rapporto bene alla religione. Renzi è un asso nella comunicazione. Oggi che non ci sono più i giganti di un tempo conta principalmente questo in politica. A me non piace ma riconosco che è un processo fisiologico. Certo non è con la parlantina che risolvi i problemi. L’Italia è un paese consumista che non ha più la possibilità di consumare. Bisogna rimettere i soldi nella tasche della gente che è demotivata. Da ragazzino incontravo ai giardinetti uno spazzino che era sempre felice. Adesso sono tutti incazzati. Forse Renzi ha ragione quando pensa che ci sono troppe incrostazioni. Chi governa avrebbe bisogno di meno vincoli. Grillo è un mio vecchio amico. Quando ci incontriamo ci compiacciamo a vicenda: “Che culo abbiamo avuto nella vita”. Sono d’accordo su quasi tutto quel che dice, mi irrita il modo in cui lo esprime».
Per cosa vorrebbe essere ricordato?
«Per quello che sono riuscito a dare. Oggi, come presidente della Siae, mi batto per la difesa del diritto d’autore. Ho l’orgoglio di fare sempre ciò che ritengo giusto. Nessuno mi ha mai comprato. Rispondo solo al mio specchio».