Nel 2006 il settimanale satirico fu denunciato da alcune associazioni islamiche per una copertina ritenuta offensiva. La testata fu assolta e la cronaca video del processo divenne un documentario proiettato al festival di Cannes
Un’assoluzione piena dall’accusa di «ingiuria pubblica verso un gruppo di persone in ragione della loro religione». Non c’era nessuna volontà di offendere i musulmani e i limiti della libertà d’espressione erano stati rispettati: per questo il
22 marzo 2007 al Tribunale di grande istanza di
Parigi Philippe Val, all’epoca direttore di
Charlie Hebdo, era stato assolto al termine di un processo nato dalle denunce di alcune associazioni islamiche e diventato il soggetto di un
documentario presentato al festival di Cannes nel 2008.
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C’est dur d’être aimé par des cons», difficile essere amato dagli stupidi, era la frase di Maometto nella copertina disegnata da
Cabu (ucciso nell’agguato di mercoledì) per l’
edizione speciale dell’8 febbraio 2006 con le vignette raffiguranti il profeta, tra cui quelle danesi di
Jyllands Posten. Quel numero non era destinato a passare sotto traccia e infatti alcune di queste caricature provocarono il malumore della
Grande moschea di Parigi e dell'
Unione delle organizzazioni islamiche francesi, che ieri hanno condannato l’attentato alla redazione.
All’epoca però le due istituzioni - insieme alla Lega islamica mondiale - denunciarono Charlie Hebdo e il suo direttore per quella copertina di Cabu, per la vignetta danese in cui Maometto diceva ai terroristi suicidi «Fermatevi, non abbiamo più vergini» e per quella in cui il turbante del profeta sembra una bomba: secondo loro avevano offeso tutti i fedeli di Allah.
Dalle denunce delle organizzazioni nacque un processo, subito trasformato in un dibattito culturale: «Si tratta di una battaglia d’idee che in nessun caso esprime odio verso una fede - aveva detto l’ex direttore Val alla prima udienza -. Abbiamo inventato la democrazia affinché ci sia un dibattito. Quando una religione diventa un’ideologia come un’altra deve poter essere criticata». I suoi difensori portarono a testimoniare molte personalità in vista, sia della cultura, sia della politica.
Tra queste ultime c’era pure l’attuale presidente della Repubblica
François Hollande: «Meglio un buon dibattito che un cattivo processo - aveva detto Hollande, al tempo segretario del Partito socialista -. La libertà d’espressione è un principio assoluto. Possiamo denunciare il terrorismo escludendo il legame con la religione quando invece sono i terroristi stessi a fare questo legame?».
Nella
sentenza del 22 marzo 2007 i magistrati ricordarono come la libertà d’espressione non valga solamente per le idee innocue, ma pure per quelle che «feriscono, scioccano o inquietano». Per loro «in Francia, società laica e pluralista, il rispetto di tutte le fedi va di pari passo con la libertà di criticare le religioni e con quella di rappresentare dei soggetti o degli oggetti di culto religioso». Ribadirono pure che «Charlie Hebdo è un giornale satirico contenente molte caricature che nessuno è obbligato a comprare o leggere» e che le caricature hanno una funzione di parodia e contribuiscono alla libertà di espressione.
Secondo i giudici quelle vignette non potevano essere viste come insulti ai musulmani. Le prime due erano una chiara critica ai terroristi. La terza, quella danese, poneva più problemi: «Lascia chiaramente intendere che questa violenza terrorista riguarderebbe la religione musulmana», si legge nella sentenza in cui viene citato anche l’editoriale di Val, secondo il quale la vignetta non rappresenta l’islam, ma «la visione dell’islam e del profeta fatta dai gruppi terroristici musulmani». Per questa ragione, «nonostante il carattere scioccante o offensivo di questa caricatura per la sensibilità dei musulmani, il contesto e le circostanze della sua pubblicazione nel giornale sembrano escludere ogni volontà di offendere direttamente e gratuitamente l’insieme dei musulmani». Solo questo disegno, per quanto ambiguo, non giustificava «in una società democratica una limitazione al libero esercizio del diritto d’espressione».
Charlie Hebdo e il suo direttore
furono assolti e la sentenza venne confermata in appello il 12 marzo 2008. Tuttavia qualcuno non aveva ancora perdonato al settimanale quel gesto irriverente.