Ha 800 anni e non li dimostra. Aiutò il progresso perché sancì le libertà individuali e favorì il processo di inclusione dei cittadini nelle istituzioni. Per questo i nostri governanti di oggi dovrebbero ripassarla

Alla grande maggioranza degli italiani il re Giovanni Senza Terra ricorda il sovrano sotto il cui regno si compirono le gesta di Robin Hood che sfidava il ribaldo Sceriffo di Nottingham. Se passiamo dalla letteratura alla storia, però, ciò che consegnò alla memoria dei posteri King John fu la sua riluttante concessione della Magna Charta Libertatum, di cui quest’anno ricorre l’ottocentesimo anniversario. Il 15 giugno 1215, infatti, a Runnymede, nella contea del Surrey, venne sottoscritta la prima “Costituzione” del mondo. In realtà gli storici hanno dimostrato che il 15 giugno non si firmò la Magna Charta che conosciamo oggi e che altri documenti precedentemente emanati da sovrani medievali avevano un contenuto in parte coincidente. Tutto ciò a voler dimenticare la grande tradizione greco-romana di diritti e libertà dei cittadini.

Tuttavia, la Charta di King John è quella che è rimasta nei secoli a testimoniare l’instaurarsi nel mondo occidentale della Rule of the Law, la prevalenza della Legge sulla volontà (o i capricci) del sovrano. In fondo, sulla facciata neo classica del palazzo della Corte Suprema degli Stati Uniti è scolpito un bassorilievo della scena di Runnymede, non quello della firma del Trattato di Costanza del 1137 tra Federico Barbarossa e la Lega Lombarda che pure contiene alcuni passaggi simili.

Cosa prevedeva la Charta inglese? Prima di tutto l’habeas corpus, vale a dire la garanzia che nessun suddito libero avrebbe potuto essere imprigionato, privato dei suoi diritti o proprietà, messo fuorilegge o esiliato, o in nessun altro modo privato della sua posizione, né si sarebbe potuto procedere contro di lui con la forza, salvo che a seguito di un giudizio secondo diritto dei suoi pari o secondo la Legge della nazione. Potente eh?

Inoltre, il Re riconosceva l’autonomia della Chiesa e della Città di Londra e si obbligava ad ottenere il consenso dei baroni prima di imporre nuove tasse. In caso di violazione, un consesso di 25 nobili avrebbe addirittura potuto privarlo delle sue terre. Giovanni non applicò mai interamente la Charta, ma qualche anno dopo venne istituito il primo Parlamento inglese e da lì, nonostante sporadici ritorni all’assolutismo, si svolse la storia costituzionale britannica e poi americana: Glorious Revolution, Bill of Rights e così via. L’ambiente istituzionale “inclusivo” permise anche lo sviluppo dell’economia e percorsi simili adottarono tutti quei Paesi occidentali (imitati da alcuni asiatici) che prima dominarono il mondo (disapplicando, però, le regole di indipendenza e democrazia per i dominati) e tutt’oggi sono i più ricchi ed evoluti nel rispetto dei diritti individuali. Detta così è semplice e so già che uno storico potrebbe trovare dozzine di eccezioni e contraddizioni a questo quadretto.

Ma l'insegnamento che ne dobbiamo trarre rimane, vale a dire che sono le istituzioni inclusive (per riprendere la definizione dei due economisti Acemoglu e Robinson) quelle che consentono crescita economica e rendono civile la società. Le istituzioni sono inclusive quando il potere pubblico non la fa da padrone e non gode di ampia discrezionalità, quando si rispettano i diritti individuali e le libertà fondamentali, compresa quella economica, le leggi sono generali, astratte e intellegibili e si può partecipare al governo della società. I nostri odierni riformatori, da Renzi a Juncker, dovrebbero perciò prima di tutto chiedersi cos’è duraturo, semplice, liberale. L’Italicum lo è? Il processo decisionale dell’Unione europea lo è? L’irresponsabilità sostanziale della Pubblica Amministrazione, dai giudici ai vigili urbani di Roma passando per gli eurocrati di Bruxelles, è “inclusiva”? Un sistema fiscale confiscatorio nelle procedure (e spesso nella sostanza) e che cambia in continuazione ha quelle caratteristiche di intellegibilità, generalità e astrattezza necessarie?

Decurtare la spesa pubblica e le tasse va benissimo (incidentalmente: il governo non lo fa), ma per risalire la curva declinante in cui si dibatte da cinque lustri l’Italia è necessario riformare profondamente le sue istituzioni. Più che un compito di un Giovanni Senza Terra qualunque, questa è un’impresa da Riccardo Cuor di Leone, lo capisco. Speriamo che arrivi nel 2015.

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