Descrivere un'epoca attraverso personalità che hanno determinato profondi cambiamenti è spesso l’unico mezzo per raccontare un mondo, per mettere assieme tasselli di un mosaico altrimenti indecifrabile. Questa descrizione non può essere affidata alla cronaca, troppo veloce, troppo in superficie per tentare un approfondimento; né alla storiografia che ha bisogno di tempo per valutare le fonti, per accettare le versioni ufficiali, per confutare leggende metropolitane. Deve essere l’arte ad assumersi la responsabilità di affrontare le sfumature.
Seguo le polemiche su “Steve Jobs” il film diretto da Danny Boyle e sceneggiato da Aaron Sorkyn e penso a quanto l’Italia avrebbe bisogno di vedersi raccontata attraverso le biografie che pesano sulla sua storia recente, come quella di Gianni Agnelli o di Enzo Ferrari. Racconti che non dovrebbero tenere conto dei desiderata delle famiglie che auspicano panegirici, né delle demonizzazioni dei detrattori. Racconti che non dovrebbero avere alcun obiettivo politicamente orientato, ma dovrebbero stimolare conoscenza e condivisione di una storia con le sue contraddizioni, il suo dolore, la sua forza fiabesca e letale. Una narrazione che finirebbe per coincidere con quella del nostro paese.
Le nostre fiction, anche quando di buon livello, non hanno svolto questa funzione e si sono sempre fermate all’apologia biografica per non urtare la sensibilità delle famiglie o per non gettare ombre sui marchi che rappresentano l’Italia nel mondo. Pensiamo a cosa potrebbe significare raccontare Berlusconi. Raccontarlo davvero, prendendosi magari delle libertà, ma senza finalità politiche. Pensiamo all’affresco dell’Italia che ne verrebbe fuori. Sarebbe un’opera grandiosa e insieme una presa di coscienza. Ma solo uno scrittore con lo spessore di Balzac potrebbe riempire i vuoti della cronaca e restituire i pensieri del dominus di Arcore spogliati dalla volgarità del gossip. E solo un regista che avesse lo sguardo di Francesco Rosi potrebbe rendere tutto questo opera cinematografica.
Intanto ci si interroga, riguardo a “Steve Jobs”, su quanto di vero ci sia nella biografia del creatore di Apple così come Boyle e Sorkin ce la presentano. Ho visto il film e il risultato, secondo me, è dirompente. È un film coraggioso perché è costruito solo attraverso dialoghi e non ha alcuna velleità di ricostruzione storica della vita di Jobs. Ma parte dal racconto delle presentazioni che Jobs faceva dei progetti Apple. Quel profilo snello, il volto sereno di chi ha cambiato la storia, ci accompagna da decenni. Telegiornali di tutto il mondo gli hanno sempre riservato uno spazio importante, ma tutto restava relegato alla cronaca, finanche al gossip. Boyle e Sorkin provano ad approfondire, prendendo come punto di partenza quell’immagine, plastica, che ciascuno di noi conserva nella memoria. Steve Jobs in abito scuro ma informale, viso scarno e occhiali evanescenti, che si muove a passi sicuri, lenti, davanti a platee che pendono dalle sue labbra.
Boyle, negli studi della CNBC, risponde alle accuse di aver inventato citando Stanley Kubrick: «La verità non sta nei fatti ma nella percezione dei fatti». Sottolinea poi la necessità di raccontare gli uomini che hanno cambiato il mondo e dato vita a nuove energie; la necessità di fare documentari, di scrivere biografie e progetti che non siano freddi, a metà tra fiction e non fiction. Opere in cui ci si prende la libertà di umanizzare caratteri che hanno popolato la cronaca per decenni. Di utilizzarli come pretesto per raccontare una fase storica che la storia sarà in grado di ricostruire solo tra qualche decennio.
Il film su Steve Jobs si unisce a progetti biografici diversi ma che hanno le stesse finalità. Mi riferisco alle miniserie come “Carlos” di Olivier Assayas e “Casa Saddam”. Qui il cinema arriva esattamente dove manca la cronaca, dove la cronaca e la saggistica non possono arrivare, dove non riescono a dare un quadro d’insieme, perché non possono focalizzarsi su aspetti umani, che la cronaca a stento sfiora e la storia considera secondari.
Di questo genere di narrazioni abbiamo bisogno come l’aria, perché riempiono un vuoto temporale, prendendo posizione prima che esistano versioni universalmente accettate, e perché costruiscono un affresco e ci danno la possibilità di comprendere il nostro tempo.
Camorra10.11.2011
Quel processo, la mia speranza