Scoprire il segreto della nostra intelligenza attraverso quella artificiale. Una sfida affascinante che sarà al centro del Festival della Scienza di Genova. Dove il professore del Mit di Boston terrà una lectio il prossimo 31 ottobre. In questo colloquio con "l'Espresso" ne anticipa i contenuti

Corbis-42-26632747-jpg
Giocano a scacchi, guidano macchine e aerei, parlano centinaia di lingue, eseguono calcoli complicati. Ma non sono intelligenti. O meglio, non sono intelligenti quanto e come lo sono gli esseri umani. Perché le macchine - di loro stiamo parlando - possono essere altamente efficienti in compiti specifici, ma non possiedono (ancora) quella intelligenza complessiva tipica del cervello umano.

E però secondo Tomaso Poggio - fisico, informatico, professore di Neuroscienze e comportamento umano alla cattedra Eugene McDermott del Mit di Boston - è tempo di riprovarci. Facendo tesoro delle nuove conquiste delle neuroscienze. E svelare finalmente, proprio grazie alle macchine, il mistero dell’intelligenza umana. Ed è proprio questo il tema della lectio di Poggio al Festival della Scienza di Genova, il prossimo 31 ottobre.

Professore, quando possiamo dire che una macchina è intelligente?
Una delle migliori definizioni è ancora oggi quella che diede nel 1950 Alan Turing (il matematico inglese padre dell’informatica, ndr). Secondo il famoso “test di Turing” una macchina è intelligente quando può convincere degli altri esseri umani, chiusi in un’altra stanza, di essere anch’essa un essere umano solo rispondendo a tono ad alcune domande. Definire l’intelligenza umana, invece, è molto più complesso. Anche perché non ne abbiamo una sola, ne abbiamo diverse. Prendiamo per esempio l’abilità di riconoscere i volti: alcuni sono bravissimi a ricordare una faccia vista in precedenza, altri non lo sono per niente. Questa è una forma di intelligenza importante dal punto di vista sociale, per esempio per chi fa politica. Ma non ha nulla a che vedere con un altro tipo di intelligenza, come la capacità di risolvere problemi.

Ma a cosa ci serve una macchina intelligente?
Io sono interessato a capire come funziona il cervello umano, voglio dare uno sguardo alla nostra mente e scoprire cosa sia e da dove venga la nostra intelligenza, che è uno dei grandi problemi della scienza. A differenza di società come Google o Ibm, che cercano di sviluppare sistemi intelligenti, la missione nel nostro laboratorio è quella di risolvere il problema dell’intelligenza umana e di come il cervello la produce. Certo, capire l’intelligenza vuol anche dire poterla riprodurre in macchine. Ma il nostro obiettivo è innanzitutto capire, poi semmai costruire.

Esplorare l’intelligenza umana significa anche capire se intelligenti si nasce o si diventa?
Io penso che quasi tutti gli aspetti della nostra intelligenza possano in linea di principio essere appresi, per lo meno in parte, durante i primi mesi e anni di sviluppo dell’organismo. Quasi nessun aspetto della nostra intelligenza più alta dipende completamente dai geni: questi sono necessari ma non sufficienti. In ogni caso è chiaro che la capacità di apprendere è fondamentale anche per l’intelligenza artificiale. Il grande passo avanti degli ultimi dieci anni nel campo dell’intelligenza artificiale è stato proprio nel campo del Machine Learning, reso a sua volta possibile dall’aumento delle capacità di calcolo e di memoria dei nostri computer, che oggi sono in grado di apprendere da milioni di esempi classificati da esseri umani, e che presto cominceranno a imparare da soli, come accade nei bambini.

L’Intelligenza Artificiale ha alle spalle molti tentativi falliti. Perché secondo lei dovremmo riprovarci proprio ora?
L’Intelligenza artificiale nasce alla fine degli anni Cinquanta, quando il Dartmouth Summer Research Project on Artificial Intelligence riunì i dieci principali ingegneri elettronici per discutere di “come rendere le macchine capaci di usare il linguaggio”. Tanto era l’entusiasmo che dieci anni più tardi, colpito dai rapidi progressi nella progettazione dei computer digitali, Marvin Minsky dichiarò che nell’arco di una generazione il problema di come creare un’intelligenza artificiale sarebbe stato “sostanzialmente risolto”. Si sbagliava. Ma da allora sono passati quasi sessant’anni: oggi abbiamo macchine molto più potenti, abbiamo fatto progressi in moltissimi settori delle neuroscienze, delle scienze cognitive, dell’apprendimento. Rispetto agli inizi, sappiamo molto di più sui cervelli biologici e su come producono comportamenti intelligenti. Siamo arrivati al punto di svolta in cui possiamo iniziare ad applicare in sinergia tutte queste conoscenze. Per questo penso che l’Intelligenza Artificiale debba rispolverare le sue antiche ambizioni. Servirà tempo, ma mi aspetto grandi passi avanti nei prossimi anni.

Eppure le macchine intelligenti fanno paura: da HAL9000 in poi, abbiamo sempre temuto che i computer potessero prendere in mano i destini del mondo.
C’è chi pensa - come Bill Gates o Stephen Hawkins - che l’intelligenza artificiale sia per l’umanità un pericolo più grande di quello della bomba atomica. La gente ha paura che una macchina intelligente, ma cattiva, possa distruggere l’umanità. Io penso che si tratti di un timore esagerato. Come ho detto, quello dell’intelligenza non è un unico problema da risolvere, ma un insieme di problemi. E non basta una scoperta di un singolo scienziato per costruire un computer assassino. Se invece guardiamo la questione da un altro lato, e pensiamo che il punto sia la perdita di lavoro dovuto alla presenza di macchine intelligenti che si sostituiscono agli esseri umani, allora sono d’accordo, il problema è concreto: i computer dovrebbero aiutare a convogliare la ricchezza verso chi non ha lavoro, non toglierlo a chi lo ha. Con un nuovo approccio economico, giuridico, sociale, il problema sarebbe risolvibile. Ma bisogna avere il coraggio di cambiare le regole del gioco.