Tra voci di possibili nuovi attentati, inasprimento del conflitto con i curdi del Pkk, pestaggi di giornalisti e condanne di massa nei confronti dei manifestanti di Gezi Park, la vigilia delle elezioni anticipate turche che si terranno il primo novembre (a soli cinque mesi dalle precedenti), mostra il rapido peggioramento della coesione sociale in un Paese membro Nato, candidato a entrare in Europa e cruciale per la sorte del Medio Oriente, specialmente per la confinante Siria.
Il premio Nobel Orhan Pamuk descrive «un clima da guerra civile» che il risultato elettorale potrebbe esacerbare se, come indicano i sondaggi, si ripeterà quello precedente. Perché la posta in gioco è ancora più alta: la tenuta democratica della Turchia e la leadership del presidente Recep Erdogan, il cui partito islamico conservatore della Giustizia e Sviluppo (Akp) ha perso la maggioranza assoluta a causa dell’ingresso in parlamento, per la prima volta, di un partito filo curdo, il partito democratico dei popoli (Hdp) guidato dall’avvocato Selahattin Demirtas.
Queste nuove elezioni potrebbero far precipitare la Turchia nel fondo del baratro su cui è già affacciata. Un fatto è certo: comunque andranno le cose, la fiducia tra istituzioni e la società laica turca è irrimediabilmente compromessa. Pochi giorni dopo la strage di Ankara, prima dell’inizio della partita tra Turchia e Islanda nello stadio di Konya, città natale del primo ministro Davutoglu, finora fedelissimo del presidente Erdogan, i tifosi turchi anziché osservare il minuto di silenzio per le vittime, hanno risposto con fischi assordanti e slogan inneggianti ad “Allah u’akbar” (Dio è grande), il grido di battaglia usato dai jihadisti. Se ancora ce ne fosse bisogno, la reazione è l’ennesima prova della polarizzazione estrema della società. Buona parte dei 102 morti erano simpatizzanti e membri dell’Hdp, che rappresenta anche le istanze della sinistra e delle minoranze etniche e confessionali, oltre agli omosessuali e transgender.
«Tutti sanno che il presidente Erdogan ha fatto fallire i colloqui per la realizzazione di una coalizione di governo con l’obiettivo di non condividere il potere. Non solo perché la condivisione gli impedirebbe di mantenere il controllo totale sull’esecutivo, come avvenuto finora nonostante la Turchia sia una repubblica parlamentare, ma anche perché il prerequisito avanzato dai partiti candidati a entrare nell’alleanza di governo era la riapertura della maxi inchiesta sulla corruzione all’interno del partito di Erdogan, scattata nel dicembre del 2013 con l’arresto di tre sostenitori dell’Akp nonché figli dei ministri più fedeli al presidente, allora ancora premier», spiega Yasemin Inceoglu sociologa, docente di giornalismo all’università di Istanbul e attivista per i diritti umani.
La “tangentopoli del Bosforo”, che ha coinvolto anche uno dei figli di Erdogan, Bilal, a causa di un’intercettazione telefonica in cui il rampollo parla di una somma di denaro di dubbia provenienza, era stata chiusa dai magistrati per mancanza di prove, mentre i pubblici ministeri che ordinarono gli arresti sono dovuti fuggire in Armenia e Germania dopo aver saputo che era stato emesso un ordine di cattura nei loro confronti. L’inchiesta è una spina nel fianco del presidente e del suo partito e se le elezioni si concluderanno come le precedenti, cioè senza la maggioranza assoluta per il partito islamico, la questione si riproporrà visto che sia il partito repubblicano Chp, ancora secondo nei sondaggi, sia il partito nazionalista Mhp, dato terzo, chiederanno la riapertura delle indagini.
In Turchia si dice che «24 ore sono un’era geologica in politica». Lo scenario potrebbe quindi cambiare ed è possibile che il partito nazionalista decida di formare una coalizione con il partito della Giustizia e Sviluppo, facendo cadere il prerequisito dell’inchiesta in cambio di un potenziamento della guerra contro il Pkk. Dopo due anni e mezzo di tregua, la ripresa della sanguinosa guerra tra i guerriglieri dell’organizzazione marxista dei lavoratori curdi (fondata da Abdullah Ocalan) e l’esercito turco, secondo gli analisti indipendenti, è stata voluta da Erdogan in chiave anti Hdp - accusato di essere il mascheramento politico del Pkk - per distruggere il consenso conquistato all’interno dell’elettorato turco e allo stesso tempo erodere voti proprio ai nazionalisti, in teoria galvanizzati e grati al presidente per la sua “crociata” patriottica.
Per evitare una coalizione l’Akp, qualora riuscisse ad avvicinarsi alla maggioranza assoluta, potrebbe anche convincere alcuni parlamentari del partito nazionalista a fare il “salto della quaglia”, o stabilire un governo di minoranza, che dovrebbe però chiedere il voto di fiducia ogni volta che sarà necessario. Entrambe le ipotesi amplierebbero la polarizzazione.
«Io voterò ancora il partito filo curdo di Demirtas perché il gioco di Erdogan è chiaro: incolparlo dell’instabilità politica per convincere noi turchi laici e progressisti a non votarlo per la seconda volta», dice una donna avvocato che ha difeso alcuni ragazzi arrestati durante le manifestazioni al parco Gezi nel 2013 e che chiede di non scrivere il suo nome a causa dell’atmosfera da caccia alle streghe contro tutti coloro che criticano il presidente.
Ed è sintomatico del clima. Un mese fa uno dei più autorevoli editorialisti del quotidiano “Hurryet”, Ahmet Hakan, è finito all’ospedale con il naso e alcune costole rotte dopo essere stato picchiato davanti a casa da alcuni sostenitori del partito di Erdogan perché in una trasmissione televisiva aveva criticato la svolta autoritaria del leader.
Contemporaneamente la sede del quotidiano è stata assalita a colpi di mazze e pietre da altri sostenitori dell’Akp. Uno di questi, Abdurrahim Boynukal?n, è addirittura un deputato del partito. Durante un convegno dei giovani dell’Akp ha rivendicato l’attacco dicendo: «I giornalisti di Hurryet sono dei terroristi, pensano di poter criticare i nostri valori islamici ma gli abbiamo mostrato che non hanno più alcuna immunità. Dobbiamo scendere in strada più spesso, metterci in azione». A questa affermazione in linea con gli arresti di numerosi giornalisti e direttori di testata da parte di una magistratura sempre meno indipendente, Boynukal?n ha aggiunto: «Facciamo in modo che Erdogan rimanga presidente, indipendentemente dal risultato elettorale». Parole apparentemente prive di logica visto che non si tratta di elezioni presidenziali. Ma parole che spiegano bene cosa ci sia realmente in ballo.
Nell’ipotesi più accreditata che si ripeta il risultato di giugno, gli scenari postelettorali sono due: un governo di coalizione o un altro ritorno alle urne. La prima ipotesi, la più difficile, è però quella auspicabile per la stabilità; la seconda sancirebbe l’inutilità del voto popolare. «Il pericolo più grave è rappresentato dalla possibilità che Erdogan proclami lo stato di emergenza con il pretesto della guerra con Il Pkk. In quel caso potrebbe riesumare la legge marziale. Sarebbe la fine della Turchia laica e democratica e assisteremmo alla nascita dell’ennesimo rais mediorientale», commenta Inceoglu.
Più possibilista circa una coalizione tra il partito al governo e i repubblicani è il politologo Mesut Yegen: «Siccome Erdogan non è più il dominus assoluto dell’Akp, credo che molti dall’interno spingeranno per una coalizione con il Chp, per smorzare le tensioni. Questa ipotesi sarà sostenuta dalla borghesia laica e centrista di Istanbul. Una chiamata a nuove elezioni invece non sarebbe apprezzata da nessuno, nemmeno da coloro che votano Akp». Il problema è che la borghesia laica è una minoranza. Chi fa la differenza è la maggioranza islamica conservatrice dell’Anatolia rurale che potrebbe rinserrare le fila a sostegno del “sultano”.
In ogni caso la Turchia del dopo elezioni avrà un nuovo volto. Che potrebbe non essere rassicurante persino per il principale attore del mondo sunnita, l’Arabia Saudita. Un influente scrittore ed editorialista filo governativo, Abdurrahman Dilipak, ha sottolineato che se Erdogan riuscirà nell’intento di trasformare la Turchia in una Repubblica presidenziale, inizierà ad agire come il Califfo di tutti i sunniti , aprendo un dipartimento per i delegati nel faraonico palazzo presidenziale di Ankara.