Nel Paese asiatico le fabbriche di laterizi sono un pezzo importante del reddito nazionale. Ma ci lavorano donne e bambini sottopagati e in condizioni pericolose per ?la salute. E sono diventate un problema per l’ambiente

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David Copperfield non abita più nel sud dell’Inghilterra. Oggi potete trovarlo nelle periferie di Dacca. Centinaia e centinaia di ciminiere fumanti, come nell’Inghilterra dell’Ottocento. E come in quel caso fatica, inquinamento e sfruttamento. Anche di bambini. Ma non siamo più ai tempi di Dickens. Ed è Gabtoli, nella periferia della capitale del Bangladesh. Oppure Gazipur, al centro di questo Paese dell’Asia meridionale che è l’ottavo al mondo per numero di abitanti (160 milioni) e il decimo per densità.

Qui a dominare il paesaggio sono le fabbriche di mattoni, spesso illegali, simbolo dell’urbanizzazione selvaggia e della febbre di costruzione che domina queste parti del mondo e il Bangladesh in particolare, visto che il Pil cresce ancora del 6-7 per cento l’anno.

Sono più di 11mila i campi di mattoni in Bangladesh, e a lavorarci è un esercito di poveri come il 19enne Saddam. Un giorno, nel suo villaggio, arrivò un macchinone e ne scese un uomo vestito da ricco. Promise un lavoro a Saddam e a tutta la sua famiglia. Dovevano solo seguirlo fino a Dacca. Accettarono. Alcuni giorni dopo, vennero dei camion e li portarono nella capitale. Era stato promesso loro che avrebbero avuto un lavoro dignitoso, e che dopo un anno sarebbero potuti tornare al villaggio.

Ma non fu così. Perché dopo un anno di fatiche tra le fornaci di mattoni non avevano abbastanza soldi né per sopravvivere alla stagione in cui la fabbrica rimaneva chiusa né per tornarsene a casa. Quella di Saddam è una delle tante storie che si ascoltano nei villaggi del Bangladesh, dove per sfuggire alla miseria si è disposti a credere alle promesse di un uomo “vestito da ricco”.
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Per fare i mattoni, uomini e donne emigrano nelle periferie delle città e qui lavorano come 150 anni fa: raccolgono la terra dalle aree umide, la mescolano con l’acqua, modellano il mattone con le mani e lo fanno seccare al sole, per poi farlo “cuocere” nei forni tradizionali. Non c’è tempesta di sabbia che li fermi, e ovviamente nessun equipaggiamento di qualsiasi tipo che li protegga. Devono produrre, come raccontano le cifre dell’Onu, oltre 12 milioni di mattoni l’anno, che in parte finiscono anche all’estero.

Accanto a ogni fabbrica c’è il villaggio in cui vivono gli operai e le loro famiglie. Le case sono grandi tra i tre e i quattro metri quadrati e ci vivono spesso anche 10 persone, appartenenti a tre generazioni diverse. Non hanno elettricità e non ci si può nemmeno stare in piedi, visto che sono alte solo un metro e mezzo. Infine i tetti di lamiera le rendono insopportabilmente calde, non solo per i quasi 40 gradi che si registrano d’estate, ma anche per il calore che dalle fornaci si propaga sottoterra (è il motivo per cui spesso lasciano a scaldare sul suolo le pentole con la zuppa).

Queste famiglie arrivano da tutto il Bangladesh, perlopiù da piccoli villaggi rurali del Nord distanti dalle grandi città. Lavorano per quattro o sei mesi nella stagione secca, quando nelle loro regioni d’origine il lavoro scarseggia. A spingerli sono la miseria e il desiderio. Spesso analfabeti, sognano di cambiare vita, di lasciare i campi e migliorare la propria condizione economica, sebbene i soldi guadagnati alla fine bastino solo per il cibo e non siano sufficienti a comprare le medicine con cui curare, tra le altre cose, le malattie respiratorie che contraggono in queste fabbriche.

Nella trappola dei mattoni non rimangono invischiati solo gli adulti, ma anche i bambini. I genitori hanno bisogno di soldi, ed ecco allora che scendono in campo anche loro, le spalle ogni settimana più curve per il peso dei mattoni, i piedi spesso nudi tra i frammenti, i volti neri di fuliggine o rossi per la sabbia. Lavorano per ore, anche a sei anni, guadagnando tanto quanto gli adulti, perché il prezzo lo fa il numero di mattoni che si riesce a trasportare ogni giorno.

C’è chi usa dei cesti agganciati sopra la testa (gli adulti più forzuti caricano anche 50 chilogrammi), mentre i più attrezzati usano delle strutture di bambù che scendono giù dal collo a mo’ di bilancia oppure delle biciclette trasformate in carretti. Le ragazze intanto, martello alla mano, riducono in polvere le schegge dei mattoni rotti, per far sì che possano essere riciclate.

Quanti soldi portano a casa la sera? Al massimo tra i 150 e i 200 taka, ovvero poco più o poco meno di 2 euro, lavorando dall’alba al tramonto. «È un’industria senza alcuna regolamentazione, un posto in cui la gente si ferisce o muore senza che succeda nulla», dice l’attivista bangladese Saydia Gulrukh.

È una doppia vergogna per il Bangladesh. La prima è, come visto, di natura sociale. La seconda è invece di tipo ambientale.

Nel luglio dello scorso anno la Banca Mondiale ha pubblicato sul tema un duro rapporto, secondo il quale ogni anno i campi di mattoni del Bangladesh espellono nell’aria più di 9,8 milioni di tonnellate di gas serra. Da un lato il fumo delle ciminiere nuoce a occhi, polmoni e gole, mettendo a rischio soprattutto la salute dei più piccoli, anche di quelli dei villaggi circostanti. Dall’altro, tra il 25 e il 26 per cento della produzione di legname nazionale viene usato come combustibile per le fornaci, provocando una massiccia deforestazione.

Non stupisce dunque che in un recente dossier globale il Paese risulti 131esimo, su 132, quanto a controllo dell’inquinamento dell’aria. Altri studi rivelano che, su 310 fiumi, 175 sono in condizioni miserabili, mentre 65 sono considerati “quasi morti”.

È insomma il nono Paese più inquinato al mondo, e colpisce che peggio facciano solo Stati quasi falliti, come l’Afghanistan, Haiti, il Mali o la Somalia. Il risultato finale è ottenuto calcolando otto diverse categorie. In una di queste, l’agricoltura, Dacca sembra quasi essere all’avanguardia. È infatti in 17esima posizione, grazie a una crescita del 48 per cento negli ultimi dieci anni: segno che lo Stato esiste, se vuole funziona.

La sua media crolla però per colpa dei dati che registrano l’impatto dell’inquinamento sulla salute, sulle probabilità che un bambino muoia entro i primi 5 anni di vita (qui è al 122esimo posto); oppure i dati sull’accesso all’acqua potabile (131), sul trattamento delle acque di scarico (145), ma soprattutto, appunto, sulla qualità dell’aria, dove è ultima nel mondo, facendo peggio di Cina e India e registrando un peggioramento del 60 per cento della sua performance negli ultimi dieci anni.

Per questo la Banca Mondiale ha lanciato sempre l’anno scorso il Clean Air and Sustainable Environment Project, che ha l’obiettivo di ripulire l’aria del Bangladesh proprio affrontando i suoi due principali inquinatori: i trasporti e le fabbriche di mattoni. Più marciapiedi per tutti, ma soprattutto fornaci tecnologiche ad alta efficienza energetica, che secondo alcuni esperti potrebbero dimezzare le emissioni di gas serra di quest’industria.

Secondo la Banca Mondiale, contribuirebbero inoltre a salvare più di 3.500 vite l’anno e a evitare milioni di casi di malattie respiratorie, facendo inoltre risparmiare 500 milioni di dollari al sistema sanitario pubblico.

Va bene il miracolo industriale, ma ora il Bangladesh, come l’Inghilterra dell’Ottocento, ha un drammatico bisogno di leggi che proteggano i lavoratori e i minori. E anche di una rivoluzione green.