La mappa è contenuta in una cartellina azzurra, le slide all’interno sembrano in apparenza immagini commerciali, cartine dei continenti, zone colorate in giallo o in blu, invece sono la sintesi visiva della presenza dell’intelligence italiana all’estero.
Dati, cifre, schede corredate di numeri a definire un’alta densità o entità scarse di uomini a disposizione. Il nostro patrimonio, le antenne a disposizione che devono intercettare e prevenire eventuali attacchi terroristici. Che per contrasto rivelano la nuova mappa del rischio per gli italiani all’estero: i luoghi di maggiore fragilità, quelli in cui la rete di protezione è più debole fino a diventare inesistente. Da ripensare integralmente, all’indomani della strage di Dacca in Bangladesh in cui hanno perso la vita nove italiani.
Un massacro che impone un nuovo mutamento di strategia. In origine sotto tiro e da proteggere erano gli obiettivi militari: i soldati in missione all’estero, in Afghanistan, in Iraq. Poi sono arrivate le vittime civili, come i quattro italiani morti nell’attentato al museo del Bardo in Tunisia il 18 marzo 2015. Oggi c’è una nuova escalation: prima il cooperante italiano Cesare Tavella assassinato in Bangladesh il 28 settembre 2015, poi i due ostaggi Fausto Piano e Salvatore Failla, dipendenti dell’impresa Bonatti, uccisi in Libia dopo un lungo rapimento, e la strage dell’ultima settimana.
I confini della sicurezza e dell’incolumità dei connazionali si spostano, vanno aggiornati di volta in volta, non coincidono più con le tradizionali frontiere geografiche e storiche. Tutti gli apparati dello Stato sono impegnati a evitare l’evento più drammatico, un attentato terroristico dell’Is in Italia, in una città d’arte o in un aeroporto o in un altro obiettivo sensibile. Ma intanto sempre più spesso a Ciampino tornano le bare di vittime italiane, coinvolte nel terrore globale. Una drammatica sequenza di vite spezzate che impone di ripensare il concetto di protezione degli italiani all’estero: i turisti, i diplomatici, gli imprenditori com’erano i morti di Dacca. E la mappa del rischio che cambia: dal Mediterraneo, ben conosciuto dalle forze di sicurezza italiane, al lontano Oceano Indiano, al Pacifico, teatri di guerra tutti da esplorare. E alleanze inedite: negli ultimi mesi, per esempio, si sono intensificati i contatti tra l’Italia e l’Australia, tra chi è nel cuore del conflitto e chi ormai solo in apparenza è dall’altra parte del mondo e invece combatte sullo stesso fronte.
In Bangladesh l’intelligence italiana è sbarcata solo dopo l’attentato, i nostri 007 sono partiti destinazione Dacca, non molti, forse due o tre, per raccogliere informazioni e ricostruire la dinamica dell’attentato. Non esisteva una presenza dei nostri servizi in Bangladesh prima del massacro, la rete di spionaggio si basava soprattutto sui rapporti con i «servizi segreti amici», la Cia, gli inglesi che in quei Paesi sono da sempre attivi.
Il Bangladesh non è un Paese strategico per la nostra economia e la presenza del terrorismo di matrice islamica non sembrava impensierire più di tanto. Anche perché, per motivi interni, per la necessità di non drammatizzare lo scontro tra le varie fazioni, il governo locale negava la diffusione dell’Is e la sua pericolosità. Adesso, però, qualcosa è cambiato.
Il governo ha deciso di inviare gli agenti sul campo per raccogliere informazioni «di prima mano» sulla strage e tentare di comprendere le reali strategie dei movimenti islamici, per capire se gli italiani erano davvero un obiettivo mirato o se le morti sono il frutto di una tragica casualità. Un lavoro non semplice, visto che le autorità locali continuano a smentire che il gruppo abbia agito eseguendo gli ordini dell’Is.
Dai servizi segreti americani e inglesi continuano ad arrivare nuove segnalazioni su Dacca: «C’è la possibilità di nuovi atti ostili». Per questo motivo la Farnesina ha allertato gli italiani che si trovano in Bangladesh, raccomandando «un comportamento vigile e ispirato alla massima prudenza. In particolare nei luoghi abitualmente frequentati da stranieri. Si consiglia, poi di limitare gli spostamenti, soprattutto a piedi, allo stretto necessario. Durante le festività religiose locali elevare il livello di attenzione, evitando, ove possibile, i luoghi di ritrovo, specie se privi di dispositivo di sicurezza».
L’allerta italiana è stata adottata anche da altri sei Paesi del mondo: Australia, Canada, Germania, Spagna, Regno Unito e Stati Uniti. Dalla Farnesina «sconsigliano fortemente le zone di frontiera», la regione delle Chittagong Hill Tracts dove vi è tensione tra le diverse etnie e sono presenti bande di trafficanti di armi e di droga. Viene spiegato che è meglio evitare gli assembramenti, «specialmente nei fine settimana e durante il venerdì di preghiera, in considerazione della presenza nel Paese di formazioni di ispirazione jihadista. Non si può escludere infatti il rischio di possibili ulteriori atti ostili».
Visto dall’Italia, viene smentito che gli italiani fossero l’obiettivo diretto del gruppo terroristico: la maggior parte delle altre vittime è di nazionalità giapponese. Semmai il discrimine, per i seguaci dell’Is, è tra fedeli e infedeli. Per gli esperti italiani la strage rivela, una volta di più, cosa sia l’Is e come stia mutando pelle, la sua configurazione anfibia, metà Stato metà organizzazione terroristica, che si adatta al cambiamento delle circostanze esterne. Sulla difensiva sul piano militare, con un quarto dei territori occupati riconquistati dalla coalizione internazionale e la metà delle risorse economiche tagliate, mentre è in difficoltà sulla guerra simmetrica, quella combattuta sul campo da eserciti regolari e milizie, l’Is ritorna a praticare le azioni terroristiche care ad al-Qaeda, la guerra asimmetrica, lo scatenamento del «Ramadan di sangue» evocato da Abu Mohammed al Adnani, il ministro della propaganda dell’Is, il Goebbels del Califfato.
Istanbul, Baghdad, Dacca sono la realizzazione del proclama, affogare gli infedeli, compresi i musulmani, nel loro sangue, un mandato di carattere religioso eseguito quasi alla lettera secondo le modalità organizzative e comunicative imposte dall’Is. Perché per Islamic State la comunicazione è importante quanto l’azione, per seminare il terrore e scatenare l’emulazione dei gruppi locali che riconoscono l’egemonia di Is. Una sfida che richiede una risposta nuova. «A Dacca gli italiani non erano l’obiettivo», ragionano i responsabili dei nostri servizi di sicurezza. «Ma la novità dal 2001 in poi, e a maggior ragione nell’ultimo anno, è che la sicurezza di un Paese si gioca in gran parte fuori dai confini nazionali».
La mappa delle zone a rischio resta quella indicata dal ministero degli Esteri. Ma cambiano gli obiettivi: bar, ristoranti, spiagge. Soft target scelti dai gruppi terroristici perché non protetti e perché funzionali alle modalità operative dell’Is: presa degli ostaggi, rivendicazioni sui social network del Califfo ad azione ancora in corso, dimostrazione di forza. Prendere tempo, diluire i tempi di intervento delle forze speciali non per ragioni di sopravvivenza - perché ogni militante del terrore cerca il martirio - ma per amplificare l’effetto mediatico di un attacco e ottenere la massima copertura del dramma in corso.
La presenza o meno di agenti italiani sul posto, la loro rapidità di movimento e la possibilità di intervenire è da questo punto di vista fondamentale. Per questo motivo il governo Renzi sta riconsiderando le misure di sicurezza e di prevenzione e sta pensando di aumentare il numero degli agenti operativi dell’Aise, il servizio segreto esterno, negli scenari più delicati sotto il profilo della minaccia jihadista. Sono diverse le zone non coperte dalla rete fissa dei nostri 007, e ora è necessario che si decida per un potenziamento, nonostante le carenze nella pianta organica determinate dalla spending review. Ci sono sedi di ambasciate anche in luoghi ad alto rischio in cui la presenza dell’intelligence si riduce anche a una sola unità. O squadre che si contano al massimo sulle dita di una sola mano. Ed è la differenza rispetto ai contingenti militari che si ritrovano, all’interno di caserme e campi di addestramento, in un territorio italiano. I soldati senza divisa dei servizi si muovono in solitudine. E ora anche in terreni scarsamente frequentati in passato.
Per decenni l’intelligence ha considerato come scenari di azione privilegiati il Mediterraneo e alcuni Paesi dell’Africa. «Ora il range del rischio è molto più ampio e non puoi coprire tutto», dicono gli esperti. C’è la Nigeria, dove gli interessi italiani sono delicati, con Boko Haram, ma vanno considerati obiettivi sensibili per l’estendersi del terrore i paesi che si affacciano sull’Oceano Indiano e sul Pacifico. «Non sono il nostro mare, di cui sappiamo tutto, dove sono maturati i conflitti mediorientali dei decenni passati e in cui ogni azione apparteneva alla sfera della prevedibilità. Ma sono scenari centrali nella nuova situazione mondiale, nella partita della sicurezza tra la comunità degli Stati e il terrorismo internazionale».
In una situazione del genere, il principio chiave dei nostri servizi si chiama proiettabilità. Diretta o indiretta. Essere messi nelle possibilità di intervenire, nel minor tempo possibile. La capacità di intervento diretto prevede una riscrittura della presenza dell’intelligence italiana nel mondo, una ricostruzione organizzativa. Ragionare non più in numero di uomini, ma per distretti. Concentrare gli uomini a disposizione in alcuni centri, con un Paese a fare da capitale e tempi relativamente rapidi di spostamento. Un meccanismo a stella, mobile, il centro può essere modificato a seconda delle esigenze. La capacità di intervento indiretto, il secondo caposaldo della protezione degli italiani all’estero, è la cooperazione con gli altri servizi che per ragioni storiche o geopolitiche si muovono a loro agio su terreni sconosciuti agli italiani.
Già da qualche anno i nostri apparati di sicurezza stanno firmando con altri Paesi accordi bilaterali e di affiancamento nelle indagini. E negli ultimi mesi si sono intensificati gli scambi di notizie con Paesi lontani, per esempio l’Australia. I vertici dell’intelligence australiana, che dipendono dal ministero della Giustizia, hanno intrecciato un rapporto non episodico con i colleghi italiani. Sarebbe stato impensabile fino a qualche tempo fa. A dimostrazione di come il mondo si stia restringendo: alla globalizzazione dell’economia corrisponde la globalizzazione del terrore. E i Paesi dell’Occidente hanno in comune interessi economici da difendere e vite umane da preservare.
La capacità di proiezione in modo diffuso, agile, nuovo, è l’arma cui il governo Renzi affida la protezione degli italiani all’estero. Anche in un momento di tagli agli apparati di sicurezza. L’analisi, come spiegano uomini dell’intelligence, è lo strumento più importante per anticipare le prossime azioni. Dopo gli attentati in Belgio, ad esempio, spiega uno 007, è stato possibile comprendere meglio come attrezzare e mettere in sicurezza gli aeroporti. Nelle aree di crisi l’intelligence italiana vuole essere presente con i propri analisti.
Il ruolo che la nostra intelligence dovrà ricoprire durante la trasferta in Bangladesh servirà a colmare le lacune di un’azione preventiva di acquisizione di informazioni e di analisi successiva che è totalmente mancata. Una falla non da poco, se si considera che le vittime di Dacca svolgevano tutti attività imprenditoriali conosciute e potevano contare su legami professionali consolidati in Bangladesh. Secondo il procuratore nazionale antiterrorismo Franco Roberti, «l’Italia è a rischio già dallo scorso anno, non lo è né più né meno di altri». «Siamo consapevoli del rischio, ma sappiamo anche che abbiamo gli strumenti per prevenirlo il che non ci garantisce in assoluto, ma lo strumento della prevenzione sta funzionando», aggiunge. «Il terrorismo si contrasta innanzitutto sul piano politico, poi sul piano investigativo e giudiziario, su quello culturale. Tutti questi interventi devono essere messi in campo insieme, non si può privilegiare un aspetto rispetto all’altro. Quindi serve unità sul piano politico e certamente non giovano le spinte disgregatrici che stanno attraversando l’Unione Europea. Questo lo capiamo tutti».
Per Roberti «è necessario recuperare una unità sul piano politico, nei Paesi occidentali, rilanciare la cooperazione internazionale e il dialogo che sono la negazione della cultura di morte che è alla base del terrorismo».
È la nuova guerra che si combatte su più fronti. E la mappa del pericolo che si allarga sempre di più, anche per gli italiani.