Zygmunt Bauman: il divorzio tra potere e politica è la malattia del mondo globalizzato
Il sociologo commenta i negoziati sul debito greco e li definisce 'senza uscita'. Perché contrappongono la politica degli stati nazione, priva di strumenti, al potere sovranazionale della finanza e dell'economia
Una corsa insensata verso la catastrofe. Un gioco pericoloso, in cui non ci sono che perdenti. Per Zygmunt Bauman, decano della sociologia europea, tra i più influenti pensatori contemporanei, i negoziati sul debito greco tra i ministri delle finanze dell’Eurogruppo e il governo di Alexis Tsipras non hanno via d’uscita.
Perché non nascono soltanto da opposte ideologie politiche, da diagnosi diverse sull’origine della crisi economica, ma dalla patologia strutturale del mondo globalizzato: il divorzio tra il potere e la politica. Da una parte c’è la politica degli stati-nazione, ancorata ai confini nazionali, priva degli strumenti per soddisfare le richieste degli elettori, dall’altra il potere sovranazionale della finanza e dell’economia, che non risponde all’elettorato ma agli azionisti e al profitto.
[[ge:espresso:plus:articoli:1.199367:article:https://espresso.repubblica.it/plus/articoli/2015/02/13/news/noi-tedeschi-salvati-tre-volte-1.199367]]Due mondi “inconciliabili, forse incompatibili”, spiega all’Espresso il teorico della “società liquida”, per il quale è tempo di archiviare l’attuale modello economico, perché produce “esclusione, solitudine, disuguaglianze”.
Professor Bauman, da settimane è in corso un duro braccio di ferro tra il governo del primo ministro greco Tsipras, che intende rinegoziare il debito e respinge i piani di austerity, e i ministri dell’Eurogruppo e i rappresentanti della Troika, i quali insistono affinché Atene “rispetti i patti”. Chi è nel giusto? Potremmo sapere chi “è nel giusto” soltanto se avessimo una linea diretta con l’Onnipotente, cosa di cui non disponiamo. Di sicuro, stiamo assistendo a un altro round di un tiro alla fune, in cui i valori, i principi, le idee su ciò che sia giusto e sbagliato non sono che postille, adottate per amor di convenienza, e subito abbandonate non appena smettono di risultare utili. Più che a rivelare la sostanza della posta in gioco, i concetti di giusto e sbagliato servono a camuffarla. Riducendo la questione all’essenziale, potremmo dire che è in atto un confronto tra i portavoce dei greci, ridotti a una condizione apparentemente inarrestabile di crescente miseria, e quelli dei poteri finanziari. Entrambi i fronti sono “nel giusto”, ma sono inconciliabili e, temo, incompatibili. Da una parte i poteri finanziari sono liberi di “investire” o “disinvestire” dovunque vogliano, in qualunque momento desiderino, liberi perfino di bistrattare la politica, che si presume sia l’angelo custode dei valori, inclusi quelli morali; dall’altra parte, la politica non può mostrare alcun muscolo per condizionare, e tantomeno obbligare, i poteri finanziari a investire in momenti e luoghi precisi o per farli desistere dalla tentazione di disinvestire.
Intende dire che quello greco è un caso esemplare di ciò che lei definisce come il “divorzio tra potere e politica”, con il primo sempre più sovranazionale e la seconda ancorata ai confini nazionali? E’ così. Tutti gli Tsipras e i Varoufakis di questo mondo sono costretti in un doppio vincolo, una presa ferrea da cui nessun altro politico è riuscito finora a liberarsi: da una parte ci sono coloro che li hanno eletti affinché li servissero, dall’altra quelli che li comandano affinché ignorino la volontà degli elettori. In breve, la contesta è tra gli stati-nazione e le borse della finanza. I primi sono locali, ancorati al terreno, al territorio nazionale, i secondi sono globali, devotamente disancorati da ogni istituzione politica, indipendentemente dal suo livello.
In queste condizioni di disparità tra gli strumenti e gli obiettivi dell’azione politica, che forma assumono i confronti tra sovranità statale e finanza sovranazionale? In questa situazione ogni confronto non può che assumere la forma dei duelli americani o di ciò che nella teoria dei giochi prende il nome di “chicken-games”. In entrambi i casi il perdente è chi si scansa per primo, evitando la catastrofe. Mi pare una caratterizzazione del dramma attuale molto più pertinente di quella suggerita da quanti - come Cécile Ducourtieux su Le Monde del 17 febbraio - parlano di bluff in una partita a poker. In questo momento l’attenzione dei media è puntata su Syriza e sulla Grecia, ma presto verrà canalizzata su Podemos, in Spagna, e poi altrove. Al di là dei singoli trucchi del caso, i “chicken-games” infatti vengono giocati, con maggior o minore abbandono, dovunque sul pianeta, ogni giorno.
Si tratta di giochi pericolosi, se applicati alla realtà sociale, e il cui risultato è imprevedibile… Non a caso la metafora che preferisco quando si discute della nostra attuale condizione, condivisa a livello planetario, è quella di un campo minato: sappiamo tutti che il terreno che calpestiamo è pieno di esplosivi e abbiamo pochi dubbi sul fatto che avverranno inevitabilmente delle esplosioni, in modo ripetuto. Eppure nessuno, mettendosi una mano sul cuore, può realisticamente prevedere dove e quando avverranno e quali saranno i passi incauti che le innescheranno.
Il dibattito sulle risposte alla crisi greca si è trasformato in un ‘referendum’ sui programmi di austerity. In uno dei suoi libri (Intervista sull’identità, con B. Vecchi) lei ha scritto che “la più lampante e potenzialmente esplosiva disfunzione dell’economia capitalistica non è lo sfruttamento, ma l’esclusione”. Ritiene che i programmi di austerity la abbiano favorita? Il passaggio dalle pratiche di sfruttamento alla minaccia dell’esclusione come principale arma di disciplina è la strategia di dominio che il capitalismo attuale trova più vantaggiosa. Quasi un secolo fa l’economista britannico Joan Robinson sottolineava il fatto che esiste un male perfino peggiore dello sfruttamento: il fatto di non essere sfruttati. Michael Burawoy, un grande sociologo dallo sguardo affilato e dal cuore sensibile suggerisce invece che, dopo un’era nella quale le malattie sociali erano il prodotto della mercificazione del lavoro, saremmo entrati in una fase di ex-mercificazione. Ivor Southwood ci ha restituito la sua esperienza dell’attuale mondo del lavoro in un libro recente, Non-Stop Inertia, dove scrive: “Odiavamo il posto di lavoro e disprezzavamo qualunque cosa lo rappresentasse, e allo stesso tempo eravamo terrorizzati dall’idea di essere ‘lasciati liberi’ in un vacuum economico nel quale avremmo dovuto lottare per trovare un lavoro e presentarci indiscriminatamente come migliori rispetto ad altri potenziali impiegati, ugualmente entusiasti, accondiscendenti e flessibili”.
A proposito di flessibilità: per i sostenitori del modello neoliberista è sinonimo di maggiore libertà, per i critici di quel modello invece fa rima con precarietà. Lei cosa ne pensa? Credo che per l’Europa ormai si aggiri uno spettro: lo spettro della ridondanza. Veniamo classificati, condannati con verdetto di ‘colpevolezza’, e la sentenza prevede l’esclusione sociale e la vita in povertà. Il fantasma dell’esclusione proietta un’ombra lunga, diffondendo le sue minacce, mentre quanti tra noi sono abbastanza fortunati da restare aggrappati a un posto di lavoro sono comunque destinati a essere perseguitati dal veleno incurabile della precarietà. Oltre al danno, poi, c’è la beffa. Perché lo stato di ridondanza – che non molto tempo fa chiamavamo “disoccupazione” e di cui pochi possono ignorare la minaccia - è stato anche privatizzato. E’ stato dichiarato come crimine. Si presume che ne sia colpevole la persona ridondante, lui o lei, soltanto quella, e la si tiene sul banco degli imputati fino a quando non dimostra di essere innocente. La ridondanza, così come la flessibilità, ci spoglia di un posto nella società e troppo spesso perfino dei mezzi di sostentamento; allo stesso tempo distrugge l’autostima e la fiducia in se stessi, estirpando la dignità dalla nostra vita.
La ridondanza sembra averci privati anche della possibilità, come lavoratori, di individuare strategie di resistenza collettiva… Mi lasci rispondere citando un testo recente di Isabel Lorey, State of Insecurity: “Con la demolizione neoliberale….dei sistemi di sicurezza sociale collettiva e con l’affermazione di condizioni di lavoro di breve termine e sempre più precarie, sono state erose le possibilità di organizzazione collettiva nelle fabbriche o nei gruppi professionali”. Da fabbriche di solidarietà, i luoghi di lavoro sono stati trasformati in fabbriche di sospetto reciproco e competizione spietata. Lo sgretolamento dei legami e delle lealtà umane è tra i più insidiosi danni collaterali perpetrati dal capitalismo nella sua ricerca dei mezzi più efficaci per prevenire il dissenso sociale e la resistenza alle sue pratiche. Lanciare lo spettro della ridondanza affinché volteggiasse sull’Europa si è dimostrato estremamente remunerativo in termini monetari. Ma è stato efficace anche nel depotenziare l’opposizione allo status quo prima anche che riuscisse a saldarsi in vere e proprio colonne in marcia.
Tsipras e il suo ministro delle finanze, Varoufakis, continuano a ripetere che bisogna cambiare il paradigma che modella le politiche economiche dell’eurozona, perché quello attuale non fa che aumentare le disuguaglianze sociali. E’ d’accordo? Il più importante effetto combinato della nuova strategia di dominazione che passa per l’insicurezza endemica creata artificialmente e per la separazione tra potere e politica è proprio la crescita smodata della disuguaglianza sociale, all’interno della stessa società e tra società diverse. Ci sono diverse forme di disuguaglianza, e in ognuna di esse qualcuno guadagna mentre altri perdono. Ciò che va sottolineato è il fatto che mai prima d’ora il numero di coloro che guadagnano si era ridotto così significativamente, mentre quello dei perdenti non aveva mai raggiunto livelli simili. Tutto ciò non può che condizionare profondamente ogni aspetto della nostra vita. Ma allo stesso tempo condiziona non meno profondamente le prospettive della nostra stessa sopravvivenza collettiva sul pianeta.