"La magistratura in qualche caso ha dato l’impressione d’essere dura e pura davanti a questioni banali e di non saper affrontare con fermezza i problemi più gravi. E qualche collega non ha voglia di impegnarsi in inchieste difficili". Intervista a Raffaele Cantone, presidente dell'Anticorruzione, tratta dal nuovo libro scritto con Gianluca Di Feo

«Non voglio creare illusioni, ma neppure lasciare alibi. La guerra alla corruzione si può fare. L’Autorità che guido non può arrestare né intercettare: non può bloccare le tangenti. Ma ha altri poteri, che cominciano a dare qualche risultato». Raffaele Cantone è il presidente della prima struttura creata in Italia per cercare di prevenire la corruzione. Un modo nuovo di affrontare ?il problema, insistendo sulla trasparenza, sul merito, sulla fiducia nella capacità di riscatto del Paese.

In un solo anno ha dovuto misurarsi con gli scandali dell’Expo, del Mose e di Mafia Capitale. E adesso affida a un libro intervista scritto con Gianluca Di Feo de “l’Espresso” l’analisi de “Il male italiano” più grave: un morbo più profondo delle tangenti, che ?ha contaminato l’intera società. Cantone discute delle colpe della politica, degli imprenditori e della burocrazia. Senza risparmiare critiche alla magistratura, a cui ?è orgoglioso di appartenere. Come in queste pagine che anticipiamo.

Raffaele Cantone, lei sostiene che per domare la corruzione è necessario puntare su tre pilastri: repressione, prevenzione e una battaglia culturale per cambiare l’atteggiamento degli italiani. Partiamo dalla repressione: cosa bisogna fare?
«Prima di tutto, bisogna porre l’attenzione su una questione organizzativa, ossia la capacità della magistratura di mettere in campo il meglio. Ancora oggi esistono realtà in cui non si aprono indagini per tangenti, nonostante nel Paese non esistano zone franche. Questo male si manifesta ovunque, seppure con diversi livelli di intensità. Se la corruzione non viene scoperta, significa che c’è un problema, nelle procure o negli inquirenti, e questo è anche specchio dell’inefficienza della magistratura nell’affrontare questioni complesse. Credo che sia necessaria un’autocritica sull’organizzazione giudiziaria e sull’importanza che viene riconosciuta alla lotta alla corruzione.

Per esempio, non tutti gli uffici investigativi hanno pool specializzati per i reati di questo tipo. Che richiedono grande impegno e professionalità: quando le inchieste vengono fatte bene, i risultati arrivano sempre».

Schermata-03-2457102-alle-15-08-07-png
Ma se la giustizia non funziona, come si può fermare la corruzione? Oggi l’impunità per i colletti bianchi è praticamente certa: la maggioranza dei procedimenti per corruzione si chiude con la prescrizione o con pene irrisorie. Quasi sempre i protagonisti degli scandali riescono a tornare al loro posto.

«La repressione giudiziaria è il momento chiave della lotta, senza il quale la prevenzione non ha alcun senso. Inutile mettere in campo strumenti per impedire la corruzione, se i reati non vengono puniti. Anche negli anni di Mani Pulite le inchieste sono state a macchia di leopardo. In quel periodo c’è stato il più alto livello di incriminazioni, ma studiando le statistiche giudiziarie ci si rende conto che esistono vuoti assoluti in alcune zone d’Italia: perché quelle procure non hanno indagato? Di sicuro non perché in quei territori non ci fossero tangenti o finanziamenti illeciti. La legge Cirielli del 2005 è stata devastante, perché ha reso la prescrizione di questi reati più rapida, ma anche prima di allora tanti processi venivano buttati via perché si perdeva troppo tempo. Ricordo la prima indagine sulle ecomafie in Italia, che ha fatto finire alla sbarra l’alleanza tra boss casalesi, politici e funzionari campani: una vicenda fondamentale, l’origine dell’avvelenamento di un’intera regione.

L’assessore della Provincia – che aveva intascato tangenti per autorizzare il trasporto di rifiuti illeciti – venne condannato, in primo grado, poi in appello ci sono stati talmente tanti rinvii che si è arrivati alla prescrizione. E di casi come questi ce ne sono moltissimi. Oggi ci sono istruttorie che vengono cancellate dal tempo prima ancora che sia pronunciato qualunque giudizio: l’inchiesta finisce nel cestino senza neppure l’incriminazione. Questo ha un effetto disastroso: oltre a non dare un colpo al malaffare, trasmetti la certezza dell’impunità. Una parte della magistratura compie il proprio dovere e difende i processi. Ma bisogna riconoscere che un’altra parte, sicuramente minoritaria, non sempre ha fatto tutto quello che poteva».

Nel 1992 i risultati delle indagini milanesi e il sacrificio di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino hanno cementato il consenso degli italiani verso i giudici. Piercamillo Davigo ha detto che la magistratura non ha fatto una rivoluzione, ma ha salvato la credibilità delle istituzioni, impedendo che la crisi economica e politica di quegli anni degenerasse nel caos. Adesso la fiducia nella categoria è ai minimi e la paralisi della giustizia insostenibile. Ma non sembra che la magistratura tenti di trovare soluzioni.
«Nella magistratura convivono varie anime. Lei ha citato il 1992, ma anche allora era divisa. Mentre Falcone, Borsellino, Livatino venivano uccisi, c’era un pezzo di magistratura che faceva in modo molto più burocratico la sua parte. Nel 1980, l’assassinio del procuratore di Palermo Gaetano Costa, una figura la cui probità dovrebbe essere d’esempio a tanti, venne collegato al fatto che alcuni colleghi avevano preso le distanze dalle sue decisioni, rifiutandosi di firmare l’ordine d’arresto per i capi di Cosa nostra. Oggi come allora, tra le toghe c’è chi fa il suo dovere con abnegazione, correndo rischi altissimi, e chi non lo fa: numericamente questi ultimi sono molti di meno, una percentuale inferiore alla media riscontrata negli altri settori della pubblica amministrazione.

E non è un caso che nel 1988 si sia preferito insediare Antonino Meli e non Falcone alla guida degli inquirenti di Palermo. Perché? Falcone era antipatico a molti, veniva considerato un «supergiudice» e tra i colleghi c’era invidia nei suoi confronti. Ma anche perché con il suo lavoro metteva in discussione la figura del magistrato che si limita a fare il minimo indispensabile. Negli ultimi anni questa fascia della magistratura si è ridotta, ma esiste ancora».

Ci sono importanti magistrati che hanno fatto l’apologia del «giudice senza qualità», che si limita ad applicare la legge senza protagonismi. Ma così si rischia di avallare la débâcle della giustizia. Perché le regole processuali favoriscono chi ha le risorse economiche per sfruttare in pieno la prassi dei ricorsi fino al traguardo della prescrizione.
«La magistratura è per certi versi schizofrenica. In qualche caso abbiamo dato l’impressione d’essere duri e puri davanti a questioni banali e di non saper affrontare con fermezza i problemi più gravi. Somigliamo per certi versi alla tela del ragno: più grossa è la vittima che cade nella nostra rete, più è facile che le sue maglie cedano e la lascino scappare indenne. Per il ragno, è una dimostrazione di intelligenza: a che serve affannarsi a imprigionare un animale troppo grande per le sue forze? Meglio concentrarsi sugli insettini inermi che si impigliano nella sua trappola. Per la magistratura, invece, questa diventa una dichiarazione di impotenza».

I pezzi grossi, infatti, beneficiano della situazione. E non solo grazie al colpo di spugna della prescrizione. Ci sono tribunali di provincia dove raramente si dà fastidio ai potenti, senza contare che la procura di Roma, per decenni, è stata «il porto delle nebbie» in cui tutte le indagini scomparivano nel nulla. Se si tratta di punire emarginati e piccoli delinquenti, però, gli stessi giudici sanno essere inflessibili.
«L’impressione è che spesso sia così. E questo consolida il potere dei forti. Basta vedere quanto spesso i processi ai colletti bianchi finiscono nel nulla rispetto ai giudizi contro cittadini comuni. Certo, sono processi più complessi, ma questo giustifica solo in parte le disparità negli esiti. La verità è che molti non hanno voglia di impegnarsi in inchieste difficili, e il fatto che i meccanismi di valutazione della produttività siano spesso oggetto di valutazioni meramente burocratiche peggiora le cose: se tu condanni uno scippatore che ha rubato venti euro, o un concussore che ha intascato milioni con metodi sofisticati, non fa differenza. Nelle statistiche possono valere entrambi uno, anche se l’impegno richiesto per assicurarli alla giustizia è molto diverso».

LEGGI ANCHE

L'E COMMUNITY

Entra nella nostra community Whatsapp

L'edicola

Il rebus della Chiesa - Cosa c'è nel nuovo numero dell'Espresso