Migranti, la rissa sul gommone: «Non è stata una strage religiosa»
Gettati in mare dai musulmani. Ma anche uno dei presunti assassini è cristiano. E gli altri arrestati si difendono: «Se ci fosse stata una rissa ci saremmo ribaltati». Tutti i dubbi sull'eccidio che ha scosso il mondo
Due settimane fa la notizia ha fatto il giro del mondo: una strage per motivi religiosi a bordo di un barcone in viaggio tra Africa ed Europa. Musulmani che in alto mare si infuriano per le preghiere dei cristiani e li gettano fuori bordo, uccidendone almeno nove. Già, ma allora perché uno dei presunti assassini sostiene di essere battezzato e credere in Gesù Cristo?
Kaba Somauro è in carcere a Palermo, accusato assieme ad altre quattordici persone per il massacro nelle acque del Mediterraneo. Ha 29 anni e la passione per il calcio, sogna un futuro da professionista del football e per questo ha lasciato la Costa d'Avorio e ha deciso di attraversare un continente. La sua professione di fede adesso apre una crepa profonda nella ricostruzione della strage che ha colpito l'opinione pubblica italiana e internazionale. Rilanciando i dubbi sulle cause del dramma: quella notte nel canale di Sicilia c'è stata un'esplosione di ferocia in nome dell'Islam o soltanto l'ennesima tragedia delle migrazioni nata solo dalle terribili condizioni del viaggio?
L'unica certezza è che diversi passeggeri, almeno nove ma alcuni testimoni parlano di dodici, sono caduti in acqua durante la traversata, senza scampo. Alcuni avrebbero cercato disperatamente di restare a bordo, aggrappandosi agli altri migranti. Le immagini dei soccorsi, che “l'Espresso” ha potuto esaminare, fanno comprendere le condizioni raccapriccianti del viaggio. Si vede un gommone con la prua sgonfia, carico in modo incredibile: più di cento persone, forse addirittura centoventi, accalcate in dodici metri di lunghezza.
La traversata sarebbe durata due giorni. Il battello avrebbe lasciato le spiagge della Libia l'11 aprile, assieme ad altri tre-quattro scafi che si sono dispersi dopo la prima fase della navigazione. Ma su quel gommone la situazione si è fatta subito tesa, perché la prua ha cominciato a sgonfiarsi e imbarcare acqua. La mattina del 13 aprile una telefonata al centro soccorso di Roma – un numero che i trafficanti memorizzano sempre sui cellulari satellitari che lasciano sulle barche – ha lanciato l'allarme. Le autorità sono riuscite a ricostruire la posizione dei migranti e indirizzare nella zona le navi più vicine. Il cargo Ellensborg cambia rotta e alle 22.30 del 13 aprile entra in contatto con lo scafo stracolmo di persone, che vengono tratte in salvo nel giro di un'ora. Solo l'esperienza dell'equipaggio riesce a evitare una nuova tragedia. Ma i migranti si mostrano calmi, forse perché esausti per le condizioni del viaggio. I marinai li schedano, realizzando un fotokit numerato per ogni persona issata sul mercantile: sono 95 in tutto.
A quel punto il cargo fa rotta su Palermo, dove attracca nella tarda mattinata del 15 aprile. Solo lì, gli investigatori scoprono il massacro e vengono a sapere dei migranti morti in mare. Alcuni dei superstiti forniscono una ricostruzione agghiacciante. Con la barca in difficoltà, per paura di morire, i cristiani - la minoranza dei passeggeri - iniziano a pregare. Quell’appello a un Dio che non è Allah scatena così la reazione dei musulmani che iniziano a gettare in mare gli infedeli. Il Jihad in mezzo al mare è descritto da sei testimoni. Uno di loro ammette: «Non so cosa abbia scatenato l’inferno, forse il tono di voce più alto di quel ragazzo che piangeva e supplicava Dio di aiutarci, di non farci naufragare. Loro sembravano impazziti, lo hanno preso e lo hanno scaraventato in acqua. Solo perché pregava. Abbiamo cercato di fermarli, ma loro erano di più. E ne hanno uccisi tanti». L’aggressione – sempre secondo gli stessi testimoni – è stata bloccata da una catena umana formata dai cristiani e dall'arrivo del mercantile.
Sono questi sei testimoni a riconoscere informalmente gli autori della strage, indicando alla polizia i presunti assassini, che vengono sottoposti a fermo. Il resto dei superstiti, ossia 74 persone, non vengono interrogati: di loro oggi non si hanno più notizie, ma è probabile che abbiano già lasciato i centri di accoglienza siciliani. Gli agenti hanno poi messo a verbale la deposizione dei testimoni, mostrandogli tutte le foto dei passeggeri scattate dall'equipaggio della Ellensborg. Il riconoscimento però non porta a risultati omogenei. Un primo testimone riconosce 17 aggressori, il secondo indica 25 colpevoli, un terzo ne accusa soltanto sei. Così, quei verbali verranno chiusi e successivamente riaperti a distanza di poche ore. Ai testimoni, questa volta, verrà chiesto il riconoscimento soltanto dei migranti già fermati sulla banchina del porto, con l'esibizione delle foto segnaletiche realizzate dalla Scientifica. I sei testimoni, questa volta, confermano il riconoscimento dei 15 già fermati.
Anche le persone sotto arresto confermano il massacro, ma danno una ricostruzione molto diversa delle cause. Il loro è il racconto di una drammatica lotta per la sopravvivenza. A bordo del gommone – spiegano nelle deposizioni difensive – tutti erano ammassati, senza divisioni né per nazionalità, né per religione: se in quelle condizioni si fosse scatenata una rissa, di sicuro l'imbarcazione si sarebbe ribaltata. E descrivono la situazione: molti passeggeri, soprattutto quelli stivati a prua, erano aggrappati al tubolare dello scafo, un po’ per tirarlo su, un po’ per evitare che l’acqua allagasse l’imbarcazione. Una lotta per non morire durata quasi 70 ore, tra le onde: quelle che avrebbero fatto cadere in mare diverse persone, tra le quali anche migranti di fede musulmana. Vittime della stessa disperazione e non dell'odio religioso.