Un'operazione vascolare e un paziente che muore poco dopo. Da qui la scelta di un medico di lasciare il bisturi per lavorare con i computer e  trovare il modo di contenere al minimo gli errori in sala operatoria

sala operatoria
Accadde a Roma, in una ordinariamente radiosa giornata di maggio, più o meno dieci anni fa. Un intervento chirurgico non particolarmente complesso, un chirurgo tranquillo che ripassa mentalmente le fasi dell’operazione. Poi, con calma, comincia a incidere la carne. «L’intervento riuscì, tecnicamente. Ma il paziente morì poco dopo»: questo il lapidario resoconto dell’evento di Davide Zaccagnini, il chirurgo vascolare che fece l’operazione al Policlinico Umberto I di Roma.

Un intervento finito male è una storia di ordinaria routine in un grande ospedale. Perché allora ci viene in mente oggi quella sciagurata giornata di maggio? Perché Zaccagnini non ha retto il colpo. Non si è appellato all’ineluttabilità di un evento avverso. Ma ha scaraventato in aria tutte le sue convinzioni sulla medicina e ha cambiato mestiere: ora è direttore dell’informatica biomedica di una multinazionale con sede a Boston.

E nel suo “Moving boxes”, romanzo appena uscito per L’Asino d’oro racconta come è andata, ma soprattutto squaderna, a modo suo, le troppe contraddizioni che separano la scienza medica dalla pratica medica. Lo fa vestendo i panni di un dottor Neri che, dice,«sono io».

«All’università i libri di testo descrivono un sistema che a parole sembra logico e prevedibile, e relativamente semplice, a patto che tu impari tutte le nozioni. L’idea è che se tu studi abbastanza saprai curare tutti i tuoi pazienti. Quello che i libri non dicono è che su quelle pagine c’è scritto solo ciò che si sa, e non ciò che non si sa. E quando inizi a fare il medico in corsia e a vedere i malati nei loro letti ti rendi conto che quello che non sai è molto più vasto di quello che credi di sapere», dice Zaccagnini.

Tutti i medici, aggiunge, vivono nell’incertezza. Prendono decisioni al meglio delle loro capacità, ma si tratta di capacità limitate, così come limitato è il metodo del ragionamento clinico sottostante a ogni pratica medica. «La medicina non è una scienza esatta. Il modo in cui un fisico arriva alle sue conclusioni ha un rigore che non è neanche lontanamente paragonabile a quello della medicina. Il punto è», continua l’ex chirurgo: «Che tutto ciò i medici lo sanno benissimo, ma non lo dicono. E questo genera un equivoco che dal mio punto di vista non era più sostenibile».

Si dice che questa pietosa omissione sia necessaria al benessere del paziente, che chiede di mettere la sua vita nelle mani di un guaritore, e non di un uomo imperfetto. Ma è una strada scivolosa. Soprattutto quando i pazienti si trovano nella fase terminale della malattia. «Quando la medicina non ha più la possibilità di guarire, i medici fanno fatica a dire “non possiamo fare più nulla” al malato e ai suoi familiari. Perché nessuno ha insegnato loro come farlo», continua Zaccagnini.

Ecco allora le cure inutili, l’accanimento terapeutico, le morti in ospedale anziché nel letto di casa, tipiche di una medicina che non sa più relazionarsi con l’individuo. Uno dei grandi errori della medicina moderna, dice nel romanzo il protagonista, è quello di pensare che l’atto terapeutico consista solo di farmaci, test diagnostici e interventi. C’è anche questo, ovviamente. Ma il dialogo è la prima medicina: il paziente vuole soprattutto qualcuno che lo ascolti.

Il tema non è nuovo: medici che non ascoltano, che non lasciano a se stessi e ai malati il tempo di domandare e rispondere. Ma nuova è la soluzione proposta da Zaccagnini: un algoritmo, che sembra l’opposto di un approccio umanitario e dialogante, ma potrebbe essere, invece, e nel romanzo lo è, una soluzione possibile per migliorare le cose.

A partire dal riconoscimento di un problema antico e apparentemente insormontabile: la formazione dei medici. «Noi impariamo la medicina del 1900, quella formulata all’inizio della rivoluzione industriale», spiega Zaccagnini. È la medicina scaturita dalla microbiologia di fine Ottocento, dalle intuizioni di Koch e di Pasteur, che compresero i meccanismi delle malattie infettive provocandone la scomparsa.

È la medicina basata sugli assiomi di Koch descritti nella Teoria dei germi, secondo cui c’è sempre una causa identificabile che puoi osservare e rimuovere. «Questo principio è valido per le malattie infettive: se elimini il germe, elimini la malattia. Ma sulle malattie “moderne”, dal diabete alle demenze al cancro, non funziona. Nessuno ha ancora capito quale sia la causa ultima, ammesso che ci sia, di queste patologie. Eppure ancora oggi i medici vengono addestrati a ragionare in termini di causalità lineare: A provoca B. Se levo A, non c’è B», dice Zaccagnini.

Perché, invece, non fare dei medici degli esperti di network, persone capaci di vedere il corpo umano non più come una serie di forme anatomiche in cui si stabilisce una malattia, ma come un sistema inestricabilmente interconnesso in cui ogni intervento produce effetti su tutto l’organismo. Ma al giovane dottor Neri, alias Zaccagnini, che ha studiato la medicina classica, questo sguardo manca. Opera al suo meglio. E sbaglia.
Così nascono gli errori dei medici. Nel 1999 un report dell’Accademia delle Scienze mostrò che negli Usa questi rappresentavano la quinta causa di morte dei pazienti.

In realtà lo studio indicava come la responsabilità degli eventi avversi non fosse quasi mai di un singolo medico, ma della complessità del sistema. Negli ultimi vent’anni, dice Zaccagnini, il numero di studi clinici per ogni patologia è esploso: inseguendo la complessità delle malattie cronico-degenerative, alla ricerca della causa originaria, si è verificato un aumento esponenziale delle informazioni da conoscere. Per rimanere aggiornato, un medico di base dovrebbe leggere 19 articoli scientifici per ogni giorno dell’anno. «Sappiamo che quando deve risolvere un problema, la mente umana riesce a gestire un massimo di sette variabili. Ma la storia clinica di un paziente ospedalizzato ne ha molte più di sette», aggiunge l’autore. In questo senso l’errore del medico è un evento che difficilmente può essere ascritto alle sue manchevolezze, che pure a volte ci sono. Il punto è che è troppo complessa la macchina. Per questo il chirurgo ha cambiato strada. E cercato nella tecnologia una soluzione a questo problema.

Al Massachusetts Institute of Technology, grazie a un programma decennale dei National Institutes of Health sulla bioinformatica, il dottor Neri/Zaccagnini lavora dunque ad algoritmi in grado di dare supporto alla decisione clinica.

Il medico inserisce nel sistema la storia del paziente, i sintomi, i risultati delle analisi, e ne riceve una lista di diagnosi possibili, che può decidere o meno di considerare. Dal suo smartphone può anche prescrivere tutti gli esami diagnostici previsti dalle linee guida, e conoscere le indicazioni terapeutiche per quella patologia. Una contraddizione con l’esigenza di dialogare con il malato, o di considerarlo come un sistema complesso anziché un semplice insieme di organi e tessuti? Solo apparentemente, conclude Zaccagnini.

L’importante è mettere sapienza medica nell’intelligenza artificiale, e non lasciare tutto nelle mani degli ingegneri informatici. Questi sistemi rappresentano una stampella al lavoro del medico, perché fanno il lavoro bruto, processano dati e propongono soluzioni, aiutandolo a non sbagliare. E liberano tempo, che può essere impiegato per tornare a guardare il paziente. Perché l’occhio clinico, i software non ce l’avranno mai.