Un colpevole con complici non individuati. Così le assoluzioni per il delitto di Perugia mettono a nudo l’assurdità delle nostre regole. Da rivedere subito

Meredith Kercher
Per l’omicidio di Meredith Kercher c’è un solo colpevole. Si chiama Rudy Guede e sta scontando la sua pena. Nella sentenza che lo condanna a 16 anni di reclusione è scritto che il delitto è stato commesso in concorso con altri individui. Costoro non sono, e non potranno mai essere, Amanda Knox e Raffaele Sollecito, assolti definitivamente qualche giorno fa dalla Cassazione. Conclusione che ha seminato sconcerto nell’opinione pubblica, come sempre più spesso accade quando ci si addentra nei meandri del sistema processuale italiano.

Cronistoria
Meredith Kercher, anatomia di un omicidio
3/4/2015
Per la storia, Raffaele e Amanda sono due bei ragazzi dal volto pulito finalmente liberati da un’assurda persecuzione. Agli occhi di qualche commentatore la condanna di un giovane nero, e per di più “difficile”, ha avuto il sapore di una beffarda palingesi di quella che un tempo si chiamava “giustizia di classe”. Si rinnovano interrogativi ricorrenti: com’è possibile che gli stessi imputati siano due volte assolti e due condannati? Era necessario farlo, questo processo, visto l’esito? Torna a risuonare il mantra più diffuso nel contemporaneo: chi paga?

Qualche precisazione, anche se impopolare, è doverosa, da parte del tecnico. Qui nessuno era stato colto in flagrante con la pistola fumante. Il processo era indiziario. Vale a dire che mancava la prova certa, ma c’erano argomenti da collegare insieme per arrivare alla ricostruzione del fatto. Elementi che la legge vuole “gravi, univoci e concordanti”, chiedendo al giudice di esaminarli e valutarli.

In questa attività, tipicamente interpretativa, sono possibili esiti difformi. Prendiamo la prova scientifica, snodo ormai cruciale di ogni vicenda criminale. Inizialmente, consulenti e periti del pm e del giudice per le indagini preliminari non erano affatto certi che il delitto fosse stato commesso da più persone, ritenendo possibile l’esistenza di un solo assassino. Altri consulenti - e giudici - propenderanno per l’ipotesi del delitto collettivo, ma la prima considerazione resta agli atti. Ed è, come tutto, materia d’interpretazione. Materia scientifica d’interpretazione.

Tocca rassegnarsi: è la scienza in sé a costituire materia opinabile, e la dialettica processuale sembra ideata da una mente perversa che gode ad amplificare i contrasti, lungi dal sanarli. Gli esperti possono comparire in un processo come consulenti di parte o del giudice. Nel primo caso, sono ontologicamente chiamati a portare acqua al mulino di una delle tesi contrapposte. In un processo accusatorio, dunque di parti che godono di eguali facoltà e diritti, non è ammissibile accordare - in ipotesi - maggior fiducia al poliziotto o al carabiniere in quanto “rappresentanti dello Stato”, ma ogni argomento scientifico, da chiunque sia portato, deve essere attentamente vagliato, sia esso accolto o confutato. Nel secondo caso, i periti rispondono direttamente al giudice. E questo, se offre una garanzia aggiuntiva, liberando il campo da ogni sospetto (per quanto tendenzioso) sulla qualità dell’analisi offerta, dall’altro non mette al riparo da altri pericoli. O, per meglio dire, dal multiforme atteggiarsi dell’esperienza umana, anche nel campo del sapere scientifico.

IL DILEMMA DEL DNA
Gli esperti sono spesso di provenienza accademica. Si dividono per l’adesione all’una o all’altra metodologia d’indagine, per il riconoscersi o meno in una determinata scuola di pensiero. Nel caso di Perugia, gran parte del contrasto sul Dna, momento decisivo della vicenda, dipendeva, in ultima analisi, dal confronto/scontro fra genetisti su alcuni temi specifici che da anni alimentano il dibattito della comunità scientifica. Quando il Dna è poco, lo si definisce “Low copy number”, e per sottoporlo all’analisi (la “corsa elettroforetica”), occorre amplificarne il volume mediante il ricorso a reagenti chimici.

Ma l’amplificazione può indurre risultati artefatti: la comparsa di dati inesistenti, la scomparsa di dati esistenti. Sino a che punto il materiale genetico può essere “stressato” senza che ciò comporti risultati del tutto inattendibili? E un risultato dubbio, come va interpretato? Come “non c’è prova che il Dna sia di Tizio”, secondo una certa opinione, molto autorevole, o come “non si può escludere che quel Dna sia di Tizio, pur non potendolo dire provato”, secondo un’altra opinione, altrettanto autorevole? Quali procedure adottare per garantire che nelle fasi di prelevamento, custodia, esame dei reperti non si verifichino contaminazioni? Un risultato ottenuto in violazione dei protocolli è da scartare, o è comunque valido, perché i protocolli non sono legge, e l’esperienza del perito deve prevalere su astratte regole ideate per qualche caso-limite?

I consulenti del primo processo svolto a Perugia sostengono di aver trovato Dna misto di Amanda e della vittima su un coltello sequestrato, e Dna di Sollecito sul reggiseno della vittima. I periti nominati dalla Corte, nel processo di appello, censurano l’errata conservazione dei reperti, giudicano inattendibile il materiale genetico trovato sul reggiseno, escludono il Dna della vittima dal coltello. Primo annullamento della Cassazione. Nuovo appello, nuovi periti. I quali non possono ripetere l’analisi sulle tracce già esaminate del coltello per carenza di materiali genetici, ma valutano un’altra traccia, ignorata perché ritenuta troppo esigua dai precedenti periti, e l’attribuiscono alla sola Amanda.

I giudici degradano il Dna misto Amanda/Meredith a indizio (prima era una prova piena), ma nella loro valutazione complessiva il Dna della cui conservazione si dubitava è comunque valido. L’ultima Cassazione - vedremo le motivazioni quando saranno disponibili - evidentemente non ha condiviso il ragionamento. La prova scientifica, insomma, lungi dal fornire certezze, rischia di produrre nebbia ancora più fitta. Accade in continuazione: non a caso negli Stati Uniti si stanno studiano protocolli imperativi, nel senso dell’adozione di linee-guida da rendere obbligatorie per l’uso della scienza nel processo. Dovremmo fare qualcosa di simile anche noi. E farlo presto.

E che dire del movente? Indicato in un primo momento nella violenza sessuale, viene ricondotto, dall’ultima sentenza di condanna (quella annullata per sempre dalla Cassazione) a una lite progressivamente degenerata. Inutile dire che il tecnico sa bene come l’individuazione del movente non sia necessaria, quando c’è la prova della colpevolezza: all’uomo della strada questa constatazione appare un sofisma del quale diffidare. Su un punto, però, senso comune e tecnica concordano. È irrazionale che tre individui coinvolti nella medesima vicenda siano processati in due diverse sedi e con regole processuali diverse. È qui, in questa diversità, che si annida un baco profondo: finché non vi si metterà mano, l’irrazionalità del sistema risulterà ineliminabile.

Rudy Guede ha scelto il rito abbreviato, e in cambio ha ottenuto uno sconto sulla pena. Nel processo contro di lui sono stati utilizzati materiali investigativi che non potevano essere spesi contro Knox e Sollecito: perché il processo abbreviato si fa sulla base delle indagini del pm, mentre nel processo ordinario la prova si forma in dibattimento. All’imputato, in sostanza, si offre un patto: tu accetti di essere giudicato “allo stato degli atti”, e in caso di condanna prendi meno anni. Nessuno, tanto meno il pm, può opporsi. Per giunta, finché il processo abbreviato dura, chi vi è assoggettato ha facoltà di non rispondere in quello contro gli eventuali coimputati. Sono le nostre regole. Sul piano astratto hanno una sostanziale nobiltà. Su quello concreto, contribuiscono a rendere la giustizia un affare tendenzialmente gnostico.

Siamo stati molto criticati, per la vicenda di Perugia, specialmente dagli americani: una loro cittadina accusava di brutalità le nostre forze dell’ordine, la sentenza contro Guede appariva incomprensibile, i membri della giuria popolare non erano sequestrati durante il dibattimento - come avviene negli States - ma vivevano come liberi cittadini, godendo persino del diritto di leggere il giornale o guardare la Tv.

Sistemi diversissimi, chiaro. Da quelle parti, quando un imputato vuole uno sconto di pena, si mette d’accordo con il pm e si impegna, con un contratto formale, ad accusare i complici. Da quelle parti, l’imputato o parla, sotto giuramento, o tace, ma una volta che abbia parlato, le sue dichiarazioni sono eterne e incancellabili. Da noi l’imputato è il signore del processo: decide se e quando parlare, ritrattare, mentire. Senza pagare dazio. Non c’è da entusiasmarsi per la giustizia contrattualistica all’americana, ma il nostro processo, così com’è, è una sorta di surreale macchina celibe, un modello indecifrabile. È accaduto, insomma, in questo caso, quanto si verifica sovente nei processi indiziari: alcuni giudici li hanno ritenuti, questi indizi, sufficienti a condannare, altri sono stati di diverso avviso. Niente che si discosti dalla fisiologia del sistema.

NON È UNA STORIA DA CSI
Esistono valide alternative? In un regime democratico no. In passato si usava la tortura, ma è lecito dubitare che persino il più scatenato colpevolista la rimpianga. Del resto, più gradi di giudizio sono previsti proprio per evitare le conseguenze disastrose a cui porterebbe una decisione errata, o controversa, se ci si attenesse solo ad essa, senza possibilità di riesame. Ma si poteva evitare un giudizio così difficile e scivoloso, il cui esito è letto da molti come una sconfitta per la giustizia? Premesso che non si può pensare di processare soltanto chi confessi immediatamente (di solito, l’accusato si difende, è così che funziona), nel nostro sistema il pm ha l’obbligo di procedere e non può “scegliere” chi processare e per quali reati. Insegue un’ipotesi accusatoria e spetta poi ai giudici vagliarla. Ogni processo è una partita aperta che ruota intorno a un interrogativo di fondo: gli elementi offerti dall’accusa sono o no sufficienti alla condanna?

Anche se si introducesse la discrezionalità dell’azione penale, i termini della questione non cambierebbero. Ci sarebbero sempre un’accusa e una difesa, e possibili esiti contraddittori del giudizio, perché quando il giudice condivide le prospettazioni dell’accusa, condanna, quando le confuta, assolve. Ma, si dice, oggi una famiglia colpita a morte non ha avuto giustizia. Eppure, per il delitto c’è un sicuro colpevole. Gli altri devono necessariamente essere i due imputati? Anche se nei loro confronti le prove non sono sufficienti?

La vicenda si è trascinata per otto lunghi anni. Il nostro sistema processuale presenta indubbie falle, alcune delle quali sono emerse proprio in occasione di questo caso. Ma l’accertamento della verità è un percorso accidentato, dialettico, difficile, e in qualche caso impossibile. Sui tempi si potrà e si dovrà lavorare, ma dovremo avere tutti l’onestà intellettuale di spiegare all’uomo della strada che un omicidio vero non accetterà mai di farsi comprimere nei cinquanta minuti di un format tipo Csi.