La Corte di Strasburgo ha condannato l’Italia per le violenze alla Diaz e per non aver introdotto il reato nel codice penale. Come prevede una Convenzione Onu del 1984. Ma finora il Parlamento ha fatto di tutto pur di non tener fede agli impegni. E il provvedimento ora all'esame della Camera è assai lontano dal testo delle Nazioni Unite

La “macelleria messicana”, come il vice questore aggiunto Michelangelo Fournier definì l’irruzione alla scuola Diaz, “deve essere qualificata come tortura”. E l’Italia dev’essere condannata non solo per le lesioni subite da Arnaldo Cestaro, che quella notte del 21 luglio 2001 riportò la rottura di dieci costole, un braccio e una gamba. Ma anche perché, a trent’anni di distanza, il nostro Paese non ha ancora introdotto il reato di tortura nel codice penale, contrariamente a quanto prevede un’apposita Convenzione dell’Onu. Una “omissione” che di fatto non esclude la possibilità che casi del genere possano ripetersi.

Nessuna divergenza di vedute: è una pronuncia all’unanimità quella con cui la Corte di giustizia europea ha previsto 45 mila euro di risarcimento nei confronti di Cestaro, il più anziano delle vittime di violenze alla Diaz nei giorni caldi del G8 di Genova. Un calvario che - fra le numerose operazioni subite e gli strascichi che le manganellate della polizia hanno lasciato - ancora fa sentire i suoi effetti su quest’uomo che all’epoca aveva 62 anni e oggi ne ha 76.

Una sentenza che crea un precedente e spalanca le porte agli altri ricorsi pendenti davanti alla Corte di Strasburgo (solo per la Diaz sono 30 in tutto). Ma che colpisce soprattutto per le sue motivazioni. Nel mirino dei giudici finisce infatti anche l’inadeguatezza della nostra legislazione: nel 1984 l’Italia firmò la Convenzione di New York, che fu ratificata dal Parlamento quattro anni dopo con l’impegno a introdurre il reato di tortura nel nostro ordinamento. Solo che da allora ogni tentativo è miseramente fallito.
[[ge:rep-locali:espresso:285518030]]
In tempi recenti anche l’Universal periodical review - ovvero l’esame periodico della situazione dei diritti umani negli Stati membri dell’Onu, effettuato dal Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite - è tornato alla carica con l’ennesima “raccomandazione”. Ma non è cambiato nulla. E anche la proposta di legge approvata dal Senato oltre un anno fa (attualmente all’esame della Camera) è lontana rispetto al testo della Convenzione.


TRENT’ANNI DI RITARDI
A ripercorrere la storia di questi tentativi fallimentari, in filigrana si leggono tutte le resistenze con cui ampi settori della classe politica italiana hanno sempre affrontato questo tema. Come se punire un agente che si spinge troppo in là non fosse anche nell'interesse delle stesse forze dell'ordine.

La prima proposta per introdurre il reato di tortura risale al lontano 1989. Ma non se ne fa nulla. Tre anni dopo, nel 1992, è il governo Amato a prendere in mano la situazione con un disegno di legge relativamente light: la tortura è prevista come semplice aggravante dei reati colposi contro la persona commessi da un pubblico ufficiale. Eppure il Parlamento non inizia nemmeno l’esame del provvedimento. E la storia si ripete a ogni legislatura: dal 1996 a oggi l'Espresso ha censito ben 66 proposte di legge sulla tortura, ma la maggior parte non ha neppure iniziato l'iter parlamentare.

Nel 2006 la svolta sembra arrivare davvero: a fine anno la Camera approva in prima lettura un testo unificato ma al Senato la risicata maggioranza che sostiene il secondo governo Prodi non ha i numeri per l'approvazione e la norma naufraga pochi mesi dopo a Palazzo Madama. Scena identica nel 2012, col governo Monti: dopo anni di inerzia stavolta è il Senato ad approvare  un ddl (in gran parte analogo a quello attualmente in Parlamento) solo che la legislatura finisce e alla fine il provvedimento non viene approvato nemmeno in prima lettura.


LA MELINA DEL PARLAMENTO
Salvo imprevisti, ora potrebbe essere la volta buona per mettere la parola fine a questa querelle decennale. Almeno formalmente, perché l’ennesimo disegno di legge approvato al Senato e adesso all’esame di Montecitorio introduce sì il reato di tortura ma lo fa restare un reato comune. Insomma, è imputabile a qualunque cittadino (che può essere punito da 4 a 10 anni). Inoltre, diversamente da vari altri Paesi europei, le pene previste per le forze dell’ordine sono relativamente blande: in Italia si va da 5 a 12 anni, contro i 15 della Francia. Nel Regno Unito - dove la legge esiste dal 1988 - è addirittura previsto l’ergastolo. Nella prima versione, poi modificata alla Camera, il testo prevedeva perfino la reiterazione di “violenze o minacce gravi” per qualificare il reato di tortura. Come dire, essere picchiati brutalmente una sola volta non era ritenuto sufficiente.

E pensare che per arrivare a questo mezzo risultato le resistenze sono state comunque durissime. Il disegno di legge, nato dalla fusione di sei diverse proposte dei partiti (Pd, Pdl, M5S, Sel e Gal) è rimasto fermo quasi un anno e mezzo prima di essere discusso: a ottobre 2013, in appena tre mesi, la commissione Giustizia aveva sfornato il testo, che però è arrivato in Aula solo a gennaio 2014 perché il governo Letta per evitare spaccature aveva deciso di accantonare tutti i temi “divisivi”. Come sui diritti civili.

E la stessa scena si è ripetuta alla Camera, dove ci sono voluti altri dieci mesi prima che la commissione Giustizia desse al testo il via libera. Adesso il provvedimento è all'esame dell’Aula di Montecitorio. Si è iniziato ad affrontare il tema lo scorso 23 marzo, poi più nulla.


ALFANO SALVA GLI AGENTI
Ma l’introduzione del reato di tortura non è l’unica battaglia interminabile. Un destino assai simile lo può vantare infatti anche l’introduzione del codice identificativo sui caschi delle forze dell'ordine, pensato per sanzionare gli agenti che si rendono protagonisti di episodi di violenze nelle manifestazioni come avviene in molti altri Paesi europei.

Dopo un lungo e travagliato iter il disegno di legge (risultato di una mediazione fra tre ddl presentati da Pd e Sel), doveva arrivare in discussione al Senato proprio in questi giorni. Ma un paio di settimane fa il ministro dell’Interno Angelino Alfano - su pressing dei sindacati di polizia, che vedono l’identificazione come una sorta di misura punitiva - ha chiesto in commissione Affari costituzionali di rinviare.

Questa la spiegazione fornita: non serve parlarne adesso, perché il governo a breve presenterà un progetto di legge sulla sicurezza urbana e il tema sarà affrontato in quella sede. La proposta di Alfano, grazie anche ai voti determinanti del Pd, è stata approvata. E adesso il rischio è di rimandare tutto alle calende greche, come ha detto esplicitamente il forzista Maurizio Gasparri: «Di fatto il governo ha archiviato il provvedimento».