Negli Usa gli afroamericani sono ancora troppo discriminati
Disuguaglianze economiche e comportamenti troppo spesso razzisti della polizia. Negli Stati Uniti c'è ancora molta strada da fare nella lotta alla disuguaglianza. Quasi come ai tempi ?di Martin Luther King
Qualcosa in 50 anni è cambiato. Marilyn Mosby, capo della procura distrettuale di Baltimora, ha messo sotto inchiesta sei poliziotti ritenendoli responsabili della morte di Freddie Gray, un afroamericano deceduto per lesioni alla colonna vertebrale dopo essere stato arrestato.
La decisione di questa 35enne afro americana, figlia e nipote di ufficiali di polizia, è stata la risposta non solo all’operato di un gruppo di agenti, ma anche alla notte di devastazione che i quartieri periferici di Baltimora hanno vissuto il 27 aprile subito dopo il funerale di Gray. Della protesta si sono impadroniti alcune centinaia teppisti che hanno distrutto auto, saccheggiato negozi e bruciato una residenza per anziani in costruzione in uno di quartieri più poveri di Baltimora.
La scelta del procuratore Mosby di mettere sotto inchiesta sei poliziotti (tre bianchi, tre neri, cinque uomini, una donna) è stata accolta con gioia dalla popolazione afro americana e con qualche nota di scetticismo sulla capacità del procuratore di portare fino in fondo il caso e sulle indagini a carico di uomini in divisa blu che si concludono spesso con l’assoluzione.
[[ge:rep-locali:espresso:285566663]]Negli ultimi dieci mesi, prima della vicenda di Baltimora, sono stati due i casi di afroamericani disarmati uccisi dalla polizia. E ogni volta l’America ha assistito a code di violenze come se si tornasse agli anni Sessanta e alle rivolte (Newark, Baltimora, Chicago, Atlanta, Detroit,Washington) che seguirono all’assassinio di Martin Luther King e si conclusero con decine di morti, centinaia di feriti e di arrestati e interi quartieri vandalizzati. Ma 50 anni fa la società americana era impregnata non solo di cultura segregazionista, ma anche di leggi e regolamenti che mettevano i neri in condizioni di inferiorità. Oggi, quelle leggi non ci sono più, ma a porre in primo piano la questione razziale ci sono due elementi che funzionano quasi in modo automatico da innesco alle rivolte: le diseguaglianze economiche dei quartieri a maggioranza nera e i comportamenti troppo spesso razzisti della polizia.
Gli ultimi tre casi sono tra loro simili e al tempo stesso molto diversi per l’ambiente nel quale sono avvenuti: l’arresto e la morte di Freddie Gray a Baltimora; l’arresto e la morte per soffocamento di Eric Garner a Staten Island, uno dei cinque borough di New York; l’uccisione a colpi di pistola di Michael Brown, teenager afroamericano, da parte di un agente con il quale aveva avuto una discussione a Ferguson, piccola città del Missouri. Tutti e tre i casi sono stati seguiti da dimostrazioni, in due casi da violenze così intense che hanno riacceso il dibattito sul perché la questione razziale sia ancora così radicata. Se lo è chiesto primo tra tutti Barack Obama, il primo presidente nero degli Stati Uniti: «Il Paese deve guardarsi dentro. Molti dipartimenti di polizia devono guardarsi dentro. Molte comunità devono guardarsi dentro». Per Obama chi ha scatenato la violenza a Baltimora ha agito da criminale, ma è necessario mettere a fuoco quelle aree dove intere comunità hanno perso ogni opportunità, dove i bambini nascono poveri e non c’è nessuno che si occupa di loro.
L’America del sogno si sveglia periodicamente con l’incubo di non sapere e non volere risolvere i problemi che ha dentro casa. È accaduto un giorno di agosto del 2014, a Ferguson, quando l’agente Darren Wilson ha incrociato il diciottenne Michael Brown. Tra i due c’è stato un alterco che si è concluso con il poliziotto che spara 12 colpi di pistola. Fu subito rivolta nella cittadina di 22 mila abitanti la cui cornice demografica si è rivoluzionata negli ultimi 50 anni: nel 1970 i bianchi erano il 99 per cento e i neri solo l’uno, mentre oggi la popolazione afro americana rappresenta oltre il 67 per cento degli abitanti, mentre i bianchi superano di poco il 29 per cento. Ma Ferguson resta bianca nelle sue istituzioni: lo sono il sindaco, il capo della polizia, 5 dei 6 consiglieri comunali, il giudice municipale, 50 dei 53 agenti di polizia. La popolazione nera si è accesa come un fiammifero dopo l’uccisione di Michael Brown e per tre volte: subito dopo i fatti, a novembre quando un gran giurì ha deciso di non incriminare il poliziotto che ha sparato, dopo i fatti di Baltimora. A Ferguson è intervenuto in prima persona l’ex ministro della Giustizia Eric Holder ordinando una indagine sulla polizia. Risultato? Il Dipartimento di polizia è stato censurato per «aver violato costantemente i diritti costituzionali degli abitanti neri», espressione che evidenzia decine di casi di arresti illegali, interventi illegittimi, maltrattamenti gratuiti nelle attività di polizia. La popolazione nera è stata pronta a reclamare i suoi diritti, ma sembra disinteressata alla vita della città, è chiusa dentro i suoi problemi e le sue rivendicazioni: solo dopo la rivolta alla prima occasione di voto gli elettori afro americani sono aumentati del 30 per cento e i consiglieri di colore sono diventati 2 su 6.
Baltimora è una metropoli dove gli afroamericani hanno un ruolo guida. Alla maggioranza nera della popolazione (il 63 per cento) si accompagnano istituzioni dirette da afroamericani. Lo è il sindaco Stephanie Rawling Blake, lo è il capo della polizia Anthony Batts, lo sono il 43 per cento dei 4 mila agenti di polizia, lo è il presidente del consiglio comunale Bernard Jack Young, lo sono 8 dei 14 consiglieri, lo è il capo dei magistrati Marilyn Mosby. Eppure, Baltimora è divisa in due zone, la parte del porto e i quartieri a est per i bianchi e la middle class, e l’area ovest per i neri, con interi isolati di case abbandonate, vecchie strutture industriali inattive da anni, le gang e i trafficanti di droga a far da padroni su una popolazione senza lavoro, con poche speranze per il futuro, famiglie disgregate, scuole indegne di un Paese civile.
La classe dirigente afro americana però non è stata in grado di migliorare le condizioni di vita nei ghetti, né di evitare la rivolta cominciata dopo il funerale di Freddie Gray. Anche a Baltimora, come a Ferguson, la situazione socioeconomica e i comportamenti della polizia sono stati il detonatore della rabbia. Negli ultimi quattro anni, ha rivelato il “Baltimore Sun”, il dipartimento di polizia è stato condannato un centinaio di volte per comportamenti violenti degli agenti in servizio e il comune ha dovuto liquidare alle vittime 5,7 milioni di dollari e 5,8 milioni agli avvocati.
La situazione è così degradata che nessuna leadership, bianca o nera che sia, è in grado di affrontare e risolvere i problemi. La fotografia di Baltimora offre l’immagine di due mondi separati: quelli che hanno e quelli che non hanno. I bianchi hanno un reddito medio di 60 mila e 550 dollari, i neri di 33 mila 610; i giovani bianchi soffrono un 10 per cento di disoccupazione, i neri il 37 per cento; l’aspettativa di vita nei due quartieri più abbandonati, Upton e Druid Heights, è di 63 anni, mentre solo a 8 chilometri di distanza, nell’area di Roland Park, è di 83 anni. Se i bianchi devono sempre guardarsi dai residui della cultura segregazionista, i neri non sono stati all’altezza del compito. E i leader nazionali della comunità afro americana, i Jessie Jackson o gli Al Sharpton, sembrano occuparsi solo delle loro organizzazioni e intervengono sempre dopo le violenze, senza mai suscitare un reale dibattito sul che fare o offrire una visione per la soluzione della questione razziale. Ci sono anche quelli che incitano apertamente alla rivolta: Louis Farrakhan, il capo del gruppo Nation of Islam, butta benzina sul fuoco parlando di «diritto biblico alla vendetta» nella rivolta a Baltimora e sostenendo che le proteste pacifiche «aiutano i bianchi».
Baltimora, metropoli di uno degli stati più ricchi d’America (Maryland), governata dagli afro americani e a meno di cento chilometri dalla Casa Bianca dove è insediato da 7 anni un presidente nero. Ma basta un poliziotto razzista o incapace per scatenare centinaia di teppisti e per rimettere sul tavolo la questione dei rapporti tra le razze. Obama ha sempre provato ad affrontare la questione con razionalità e ha invitato i suoi fratelli a non lamentarsi e a non pensare che gridare alla propria condizione disagiata sia la soluzione del problema. Una volta, parlando al NAACP, l’associazione che promuove lo sviluppo degli afro americani, ha lanciato questo messaggio: «Noi abbiamo bisogno di una nuova mentalità, perché una delle più devastanti eredità della discriminazione è il modo in cui abbiamo acquisito l’idea di avere un limite in quello che possiamo fare... I nostri figli non possono tutti aspirare ad essere James LeBron o Lil Wayne. Devono lavorare per essere scienziati e ingegneri, dottori e insegnanti, non solo campioni nello sport, ballerini o rapper. Devono aspirare alla Corte Suprema o a diventare presidenti». Applausi a scena aperta, ma poi qual è la strada per uscire dai ghetti?
Ogni anno la National Urban League, organizzazione non profit fondata nel 1910 che si occupa di favorire l’inserimento degli afro americani, cerca di fotografare la situazione con un dossier che ha per titolo “The state of Black America”. Si comincia con l’indice generale di eguaglianza: se i bianchi sono rappresentati dal numero 100, nel 2015 i neri sono fermi a 72,2, segno che la parità è ancora lontana. Ma è significativo confrontare l’indice 2015 con quello del 2009, primo anno di Obama alla Casa Bianca: in questo caso i neri sono a 71,1. Lo studio di “The State of Black America” analizza anche i diversi aspetti della vita sociale nel rapporto bianchi-neri. Nell’economia, che vuol dire accesso al lavoro, retribuzioni, qualità degli incarichi al 100 dei bianchi corrisponde il 55,8 degli afro americani (57,4 del 2009), un leggero peggioramento. Guardando al rapporto con la salute, ovvero assicurazioni mediche, rapporti con ospedali e dottori, accesso alle cure, l’indice del 2015 è 79,8 (74,4 del 2009). Ed è migliorata anche la voce giustizia sociale: nel 2009 l’indice era fermo a 64, nel 2015 è salito fino a 69,6. Peggiorata invece la situazione dell’accesso all’educazione: nel 2009 era al 78,5, oggi è ferma al 76,1. Leggere l’analisi della National Urban League fa fare un salto indietro di 50 anni quando il presidente Lyndon Johnson insediò la commissione Kerner dopo le violenze nei ghetti. Anche se qualcosa è cambiato, nel rapporto finale furono scritte parole che ancora oggi suonano come un monito alla necessità di cambiare. «La nazione si muove in direzione di due società, una bianca e una nera, separate e non eguali tra loro». E ancora: «Segregazione e povertà hanno creato un ambiente distruttivo totalmente sconosciuto agli americani bianchi».