Diritti

La polizia negli Stati Uniti è razzista. Ma riformarla è quasi impossibile

di Manuela Cavalieri e Donatella Mulvoni   15 febbraio 2023

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Dopo i recenti omicidi di afroamericani, il presidente Joe Biden non vuole deludere la comunità nera, ma nemmeno inimicarsi gli agenti. E al Congresso non ha la maggioranza

L’urgenza è quella di onorare un debito mai estinto con la comunità afroamericana. Memphis si impegna a farlo oggi. Dalla città in cui cinquantacinque anni fa veniva ucciso Martin Luther King e con lui il sogno di uguaglianza, sono partite lo scorso gennaio le proteste per la morte di Tyre Nichols. Ventinovenne, disarmato, fermato per un presunto eccesso di velocità, pestato da cinque agenti afroamericani come lui e morto dopo tre giorni di agonia. Ora gli attivisti sperano che l’indignazione montata dopo la diffusione del video delle violenze, costringa il Congresso a mettere mano ad una riforma nazionale che cancelli la vergogna degli abusi della polizia sulle minoranze.

 

«Il sogno di Martin Luther King non è morto, anzi lo stiamo costruendo. È un impegno costante affinché le speranze, contenute nel suo discorso “I have a dream”, si realizzino», assicura dalla sua casa di Memphis, Amber Sherman, attivista di Black Lives Matter, una delle voci prominenti delle manifestazioni. «Le rimostranze della gente che per mesi inondò le strade americane quando nel 2020 furono uccisi Breonna Taylor e George Floyd non sono state vane. Portarono alle politiche che oggi hanno permesso di licenziare immediatamente gli agenti coinvolti (poi accusati di omicidio di secondo grado)».

 

In un’America già scossa, alla rabbia per la morte di Nichols si è aggiunta quella per l’uccisione del trentaseienne nero Anthony Lowe, disabile con entrambe le gambe amputate, freddato in uno scontro il due febbraio in California con diversi colpi di pistola.

 

Violenza e razzismo delle giubbe blu turbano anche i sonni dell’inquilino della Casa Bianca. Joe Biden, incolpato dalla comunità nera, e persino da molti alleati, di tenere un comportamento troppo prudente, sente di dover giocare ogni carta per spingere il Congresso ad approvare una legge di riforma della polizia.

 

Il presidente democratico, che potrebbe presto annunciare la sua ricandidatura alle elezioni del 2024, non vuole deludere la comunità nera (dimostratasi fedele nella scorsa tornata), ma neanche far mancare il suo sostegno alle forze dell’ordine a cui non ha mai tagliato i finanziamenti.

 

Forti pressioni arrivano dal Black Caucus, il gruppo trasversale dei parlamentari afroamericani. A loro Biden ha assicurato l’impegno per un’azione legislativa che la vicepresidente Kamala Harris, prima nera a ricoprire questo ruolo, aveva definito «non negoziabile» intervenendo ai funerali di Nichols.

 

In verità i democratici ci avevano provato nel 2020 e nel 2021 con il “George Floyd Justice in Policing Act”. Il disegno di legge - che tra le altre cose prevedeva l’incremento dell’uso delle videocamere indossabili e la creazione di un database nazionale per gli agenti che si macchiano di cattiva condotta - non è mai passato al vaglio del Senato. Il presidente ha potuto quindi solo firmare un ordine esecutivo, che però non risolve il problema.

 

«Per una legge federale ci vorrà del tempo - spiega ancora Sherman - I democratici non hanno ancora i voti necessari. Per questo, intanto, ci battiamo per un cambiamento a livello locale. Ad esempio, la fine dei fermi stradali pretestuosi e dell’uso eccessivo della forza. Stiamo vivendo un momentum che non dà segni di rallentamento».

 

Ad alimentarlo è lo sdegno per l’ennesimo attacco fatale avvenuto, come dice Jelani Cobb sul New Yorker, ancora una volta sotto gli occhi di milioni di testimoni indiretti.

 

«I telefoni cellulari e le telecamere indossate dagli agenti hanno consentito di fare molti passi avanti». E nessuno può dirlo meglio di John Burris, leggendario avvocato per i diritti civili. Nel 1991 rappresentò l’afroamericano Rodney King, picchiato selvaggiamente dalla polizia di Los Angeles. Le immagini del pestaggio, riprese casualmente da un videoamatore, divennero virali provocando proteste violente in tutta la nazione. «Il caso King fu uno spartiacque per l’opinione pubblica. Mostrò a tutti la brutalità della polizia. Era difficile da accettare perché le persone non l’avevano mai vista prima», ricorda con noi il legale dal suo studio di Oakland, in California.

 

Burris, che tra i clienti illustri ha vantato anche Tupac Shakur, naviga da anni fra le trappole del razzismo sistemico. «La giustizia funziona a due livelli, uno per afroamericani e ispanici, l’altro per i bianchi. E in questo sistema i neri sono trattati con più durezza. Non importa se giudici e procuratori neri siano aumentati. Il sistema è il sistema. Ed è intrinsecamente basato sulla razza».

 

Nonostante i bianchi vengano uccisi in numero maggiore dalla polizia, i neri e le minoranze sono colpiti in modo sproporzionato. Gli afroamericani rappresentano il 13,4% della popolazione, ma sono coinvolti nel 22% dei casi in cui si verifica un’azione letale delle forze dell’ordine. Un dato che non tiene conto però di una realtà più complessa e quotidiana che include pestaggi e fermi non giustificati, anche quando non si registrano morti.

 

Il problema non è solo l’addestramento delle forze dell’ordine. «È la cultura nei dipartimenti ad essere determinante. Gli agenti del caso Nichols erano afroamericani come lui. Una volta entrati in polizia, l’unico colore che conta per loro è il blu, quello della divisa».

 

Burris è comunque ottimista, crede che un cambiamento sia possibile. Le sue speranze sono riposte nella nuova leva di attivisti e di avvocati per i diritti civili. «Il mio compito oggi è aiutare i giovani a fare la differenza. Si tratta di una lotta continua. W.E.B. Du Bois diceva che il 10% di noi deve prendersi cura dell’altro 90%. È una responsabilità».