Le trattative all'Ocse per eliminare i sussidi alla fonte fossile sono falliti di nuovo. Perché dietro le dichiarazioni green ci sono grandi interessi economici. A partire da quelli di Giappone, Corea del Sud e Germania, ma anche dell'Italia. I retroscena del negoziato-chiave in vista della Conferenza sul clima di Parigi      

Una miniera di carbone in Westfalia, Germania
A parole sono tutti d'accordo: la lotta ai cambiamenti climatici è una priorità. Un po' più complicato passare alla pratica, che significa innanzitutto eliminare gli aiuti pubblici alle fonti fossili più inquinanti e, di conseguenza, danneggiare talvolta la propria industria nazionale. La contraddizione è tutta qui, e si è manifestata in modo evidente durante l'ultima riunione dell'Ocse, andata in scena il 12 e 13 giugno a Bruxelles. I 34 membri dell'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico – di cui fanno parte tutte le grandi potenze economiche ma non India, Cina, Russia e Brasile - si sono ritrovati nella capitale belga con l'obiettivo di cancellare i sussidi al carbone, una trattativa che va avanti da un anno. La riunione ha però partorito l'ennesimo nulla di fatto. Rinvio della discussione a data da destinarsi.

Sul tavolo delle trattative c'era appunto il carbone, di gran lunga la fonte fossile più inquinante, oltre che oggi più economica: se usato per creare energia, e quindi bruciato, produce infatti il doppio delle emissioni di anidride carbonica rispetto al gas. Nonostante questo, le nazioni industrializzate continuano a sostenere l'estrazione del carbone e la costruzione di centrali elettriche che lo bruciano.

Lo fanno all'estero, soprattutto, attraverso i cosiddetti “crediti all'esportazione”. Come funzionano? Facciamo un esempio. Un'azienda europea vuole realizzare una centrale a carbone in Vietnam, per conto della società elettrica locale. L'investimento è enorme, la compagnia europea non riuscirebbe a sostenere lo sforzo autonomamente e le banche private non si assumerebbero da sole un rischio del genere, ripagabile peraltro in un lasso di tempo molto ampio. Ecco che entrano allora in gioco le agenzie pubbliche che assicurano il credito. Società di Stato come l'italiana Sace. Che di fatto, con i soldi dei contribuenti, garantiscono buona parte del denaro necessario per costruire la centrale, e in cambio chiedono interessi più bassi rispetto alle banche.

E' con questo meccanismo che i Paesi industrializzati continuano a fare affari con il carbone, combustibile ormai utilizzato soprattuto nelle cosiddette economie emergenti, India e Cina su tutte, dove si stanno costruendo decine di nuove centrali per soddisfare la domanda energetica nazionale.

Sussidi pubblici dal 2007/2014: principali finanziatori (mld di dollari)
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Per capire perché i negoziati sull'eliminazione dei sussidi al carbone siano in stallo da un anno bisogna guardare i numeri. Una raccolta di dati ufficiali l'Ocse non la fornisce. A fare un po' di chiarezza ci hanno pensato alcune tre associazioni ambientaliste: Wwf, Oil Change International e The Natural Resources Defense Council. Secondo il loro ultimo report, il Paese che in assoluto finanzia di più l'esportazione di tecnologie legate al carbone è il Giappone, che d'altra parte è uno dei maggiori produttori di impianti al mondo con una schiera di aziende capitanate dalla Toshiba. Non è un caso se, a quanto sostengono due fonti che hanno partecipato ai negoziati all'Ocse, sia stata proprio Tokyo ad opporsi con più vigore all'accordo per ridurre i sussidi.
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Sulla stessa linea del Giappone ci sono la Corea del Sud, altro grande produttore di tecnologia industriale, e l'Australia, che con i giganti delle materie prime Rio Tinto e Bhp Billiton fa del carbone uno dei pilastri della propria economia. La loro paura? Semplice: perdere un affare redditizio e lasciare il posto a nazioni come Cina ed India, che non essendo membri dell'Ocse possono continuare ad aiutare le loro aziende anche in casi di accordo. A capo dei Paesi più decisi a limitare al massimo i sussidi si dichiarano invece gli Stati Uniti, che pure sono stati finora molto generosi con la propria industria, ma che con Barack Obama alla presidenza hanno indossato i panni della potenza green in previsione della Conferenza sul clima di dicembre a Parigi, dove si punta a trovare un accordo vincolante sul taglio delle emissioni di gas serra nel mondo.

Sussidi pubblici dal 2007/2014: principali riceventi (mld di dollari)
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In mezzo ai due estremi del tavolo negoziale si barcamenano le altre nazioni. Che devono mediare tra le dichiarazioni ambientaliste a favor di telecamera e le preoccupazioni dell'industria locale. L'Italia è rappresentata alle trattative dall'inviata del Ministero dello Sviluppo economico, Emilia Bruni. E dice di voler puntare a un «accordo equo sui crediti all'esportazione per le centrali a carbone anche attraverso l’utilizzo delle migliori tecnologie disponibili». Significa, in pratica, non eliminare i sussidi ma lasciarli solo per gli impianti più moderni ed efficienti. Che sono proprio quelli alla cui costruzione partecipiamo. Poca cosa, rispetto ai concorrenti, ma comunque un investimento pubblico di quasi 350 milioni di dollari, o almeno questa è la cifra ufficiale.

La Sace dice di aver in corso tre operazioni di “export credit” legato al carbone. Il più importante è un progetto della Saipem in Australia - 280 milioni di dollari – legato all'estrazione di “coal seam gas”, metano intrappolato nelle rocce carbonifere. C'è poi un aiuto da 57,8 milioni per un affare in Indonesia della Coeclerici, la società del presidente di Assocarboni, Andrea Clavarino. Uno da 5,8 milioni in una centrale a carbone in Messico, di cui Sace non comunica il nome del cliente. E un altro ancora più fumoso: un impianto di raffinazione da costruire in Turchia, con annessa centrale a carbone, di cui non si conosce il nome del cliente di Sace né l'investimento.

Se l'Italia pare comunque avere un interesse limitato sulla questione - e può quindi permettersi un atteggiamento filo-americano nelle trattative - c'è un Paese europeo che dal carbone dipende parecchio. La Germania, oltre che grande consumatore della pietra nera, è il maggior finanziatore pubblico di progetti nel settore. Dal 2007 al 2013, soprattutto attraverso la Hermes (equivalente tedesca della Sace), Berlino ha messo a disposizione delle sue aziende aiuti per 4,8 miliardi di euro, soprattutto per la costruzione di nuovi impianti all'estero. Ecco perché, secondo le fonti che hanno partecipato ai negoziati all'Ocse, i tedeschi hanno tenuto finora una posizione più vicina al Giappone che agli Stati Uniti.

Un atteggiamento non proprio in linea con l'immagine di Paese amico dell'ambiente che Angela Merkel non perde occasione per offrire al pubblico. L'ultima è stata proprio in Germania, al G7 di Schloss Elmau, sulle montagne bavaresi, dove la cancelliera tedesca ha annunciato trionfante l'impegno delle sette nazioni partecipanti per ridurre le emissioni di gas serra. «Oggi c'è stato un chiaro riconoscimento sull'obiettivo del contenimento dell'aumento di due gradi della temperatura globale», ha scandito la Merkel dal palco del summit. Per ora sono promesse non vincolanti. E un po' di entusiasmo, si sa, non costa niente.