Nata nelle università, la campagna contro la fonte energetica più inquinante conquista il mondo del business. Con qualche sospetto sugli interessi in gioco

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E pensare che quando tutto iniziò, nel 2008, sembrava uno dei tanti movimenti ambientalisti destinati a scomparire nel giro di un corso di laurea. «Una trovata simbolica», era il modo in cui veniva liquidato dagli esperti. I ragazzi di 350.org, un gruppo di universitari americani del Middlebury College, nello Stato del Vermont, in una manciata di anni hanno invece trasformato la propria passione in un lavoro.

Il motto “divest from coal” ha fatto breccia prima nel cuore degli atenei americani, convincendo oltre un centinaio di rettori a cancellare gli investimenti dei ricchi college nel carbone, considerata la più inquinante delle fonti fossili. Poi il messaggio ha superato i prati dei campus yankee, è arrivato nei consigli d’amministrazione delle più grandi banche mondiali. E le multinazionali del settore si sono dovute ricredere: altro che «trovata simbolica», quella del gruppetto di universitari capitanati dal giornalista e scrittore Bill McKibben, che per la sua crociata ambientalista ha preso spunto dal movimento universitario degli anni Ottanta, capace di spingere molti college a cancellare i propri investimenti in Sudafrica per boicottare l’apartheid.

Clima
I Paesi ricchi fanno gli ambientalisti ma continuano a finanziare il carbone
23/6/2015
L’ultimo successo della campagna “disinvestire dal carbone” è arrivato a inizio giugno, quando il Parlamento norvegese ha deciso a maggioranza di imporre un obbligo al proprio fondo sovrano, il più grande al mondo grazie a una potenza di fuoco di 900 miliardi di dollari. Dal prossimo anno il fondo venderà tutte le sue partecipazioni in società che ricavano dal carbone il 30 per cento del fatturato o il 30 per cento dell’energia prodotta. Una rivoluzione che rischia di avere contraccolpi pesanti sul mercato. Secondo il governo di Oslo, infatti, verranno vendute quote per un valore complessivo di 4,5 miliardi di dollari, e tra le partecipazioni norvegesi ci sono anche parecchie aziende italiane: Acea, Iren, Hera, A2A, Terni Energia. C’è pure l’Enel, la più esposta sul settore, di cui il fondo possiede l’1,7 per cento. La tagliola norvegese la colpirà? La società controllata dal ministero dell’Economia non fornisce la quota del fatturato legata al più antico dei combustibili fossili, ma fa sapere che nel suo mix energetico il carbone vale oggi il 29 per cento ed entro il 2019 scenderà al 23.

Produzione di energia elettrica da varie fonti



DAL QATAR ALLA CHIESA ANGLICANA, TUTTI CONTRO

Il fondo sovrano scandinavo è solo l’ultimo dei giganti della finanza ad aver recepito il motto green degli ex universitari americani. A parte gli atenei, primo fra tutti quello di Harvard con i suoi 36,4 miliardi di dollari di patrimonio finanziario, alla lista degli anti-carbone nelle ultime settimane si sono uniti in tanti. La Chiesa Anglicana ha annunciato di non voler più scommettere i suoi 9 miliardi di sterline sul carbone. La stessa promessa è stata fatta dal Rockefeller Brothers Fund, il salvadanaio degli eredi di John D. Rockefeller, il più famoso e importante dei pionieri americani del petrolio. Motivazione ufficiale? Il carbone è il combustibile fossile più inquinante: a parità di energia prodotta - ripetono gli esperti - emette il doppio dell’anidride carbonica rispetto al gas. Le ragioni dell’annunciata fuga, però, non sono solo ambientali. Per Bank of America, che un mese fa ha assicurato di voler ridurre i finanziamenti ad aziende del settore carbonifero, il motivo è rappresentato da rischi economici «più urgenti» perché le regole del settore potrebbero diventare più stringenti, rendendo meno profittevoli i vecchi impianti, e il gas è destinato a rubare una grossa fetta di mercato grazie al suo minor impatto ambientale. Un ragionamento applicato anche da altri big della finanza come i francesi di Crédit Agricole e Axa, gli olandesi di Ing e i britannici della Barclays (ora controllata dal Qatar).

Insomma, tutti convinti che sia meglio ridurre gli investimenti nel carbone. D’altra parte lo dicono gli analisti, compresi quelli dell’Agenzia internazionale per l’energia (Iea). Nell’ultimo report sui cambiamenti climatici, pubblicato il 15 giugno, è stata chiara: se vogliamo evitare la catastrofe (equivalente a un aumento medio della temperatura globale superiore a 2 gradi rispetto al periodo pre-industriale) ci sono cinque cose da fare, tra cui il divieto di costruire nuove centrali a carbone a bassa efficienza e l’impegno a ridurre l’uso di quelle attuali. Consigli che arrivano in un momento cruciale. I Paesi del G7 si sono appena impegnati a ridurre entro il 2050 le emissioni di gas serra dal 40 al 70 per cento rispetto a quelle del 2010. Giovedì 18 giugno è stato Papa Francesco a tornare sul tema con l’enciclica “Laudato si’”, in cui ha definito «urgente» il bisogno di ridurre l’inquinamento (vedi articolo a pagina 40). Tappe di avvicinamento alla Conferenza sul clima di Parigi, a dicembre, che dovrebbe portare ad un accordo vincolante sul taglio delle emissioni. Quale sarà il risultato è impossibile prevederlo. Di certo l’attesa per l’evento parigino sta creando parecchie preoccupazioni nel settore energetico, con associazioni, fondazioni e think tank impegnati a darsi battaglia sulla ricetta migliore per salvare l’ambiente. Ne ha una anche la Oil and Gas Climate Initiative, neonato organismo di cui fanno parte Eni, Bp, Shell, Total e altri colossi petroliferi.

Carbone, la Germania è maglia nera



SE È IL PETROLIERE A FARE L’ECOLOGISTA

Il loro obiettivo ufficiale: delineare le strategie per inquinare meno. Formula tradotta in concreto dal numero uno di Eni, Claudio Descalzi, che in una lettera pubblicata su “L’Osservatore Romano”, il quotidiano del Vaticano, ha invitato a «porre le basi per un futuro dove siano trainanti il gas naturale e le rinnovabili». Un invito non disinteressato, puntualizza il presidente di Assocarboni, Andrea Clavarino: «L’Eni fatica a vendere il metano alle centrali elettriche europee, perché il carbone è più competitivo, e così cerca di fare i suoi interessi. Però per farli dice una bugia: se consideriamo infatti l’intero ciclo di vita del gas, compresa l’estrazione, le emissioni di anidride carbonica sono equivalenti a quelle prodotte da una centrale a carbone».

Al di là della diatriba tra i sostenitori del metano e quelli del carbone, quest’ultimo è ancora oggi la principale fonte di energia elettrica nel mondo con una quota superiore al 40 per cento. Lo è soprattutto in nazioni come Cina e India, che stanno continuando a costruire nuove centrali, ma anche in Europa c’è chi fa ancora grande affidamento sul minerale simbolo della Rivoluzione industriale. «La Germania si presenta come uno dei Paesi più attenti all’ambiente ma, oltre agli investimenti in energie rinnovabili, ha aumentato di molto anche la produzione di elettricità da carbone, in particolare da lignite, quindi altamente inquinante», fa notare Luigi De Paoli, docente di Economia ambientale all’università Bocconi.

Se il motto “divest from coal” dovesse continuare a far proseliti, a perderci sullo scacchiere politico sarebbe dunque anche Berlino e le sue società del settore, da Rwe a Eon. Vincitrici, invece, ne uscirebbero le aziende e le nazioni ricche di gas, unica alternativa immediata all’abbandono del carbone. Quindi, soprattutto Eni e Shell. E la Norvegia, primo produttore di metano d’Europa. Che la mossa del suo fondo sovrano, oltre che dalle pressioni ambientaliste, sia stata determinata anche da questo particolare?