QUANDO GEORGE S. PATTON a 18 anni indossò per la prima volta la divisa da cadetto, sapeva già di volere diventare “il generale d’acciaio”. Si sentiva investito di una missione ed era «affamato di gloria» ma soprattutto aveva un’enorme considerazione del suo status: «Siamo persone così superiori da meritarci il successo». La sua uniforme era perfettamente identica a quella portata dal padre e dal nonno nella stessa scuola militare, uguale in tutto persino nella misura delle spalle e delle maniche.
Confrontando però il dagherrotipo del giovane Patton, c’è un altro elemento che colpisce: lo sguardo è lo stesso esibito dagli avi nei quadri della guerra di secessione. Non è un vezzo, non si tratta di una questione di mode. Una delle prime cose che gli aspiranti ufficiali imparano è l’arte di comandare con gli occhi. L’autorità scaturisce dal portamento, dalla capacità di imporre rispetto senza bisogno di urlare, senza nemmeno muovere un dito. Se passate in rassegna i ragazzi ritratti in queste pagine, più che sugli abiti dovete concentrarvi sullo sguardo: è la vera uniforme, che li rende simili nonostante nazionalità e specialità diverse. Francesi e svedesi, olandesi e italiani, marinai e fanti, carristi e aviatori esibiscono una fierezza comune, che ricalca quella dei condottieri incorniciati alle loro spalle: sono marziali.
[[ge:rep-locali:espresso:285155096]]Le splendide foto di Paolo Verzone colgono l’essenza di una mutazione: la trasformazione di un ragazzo in comandante. È un processo studiato in venti accademie militari di sedici paesi. Quelli che vedete non sono ancora guerrieri, anche se sognano di esserlo, ma hanno già l’impronta del leader. Ovidio canta la metamorfosi dei denti del Drago di Marte, che una volta seminati nel terreno generano guerrieri: «Questi uomini nascono armati fino ai denti e la loro prima percezione è di essere tutti nemici l’un l’altro. Sono tutti figli di Marte, fratelli nati dai suoi denti, il residuo più duro del corpo in decomposizione, la sostanza ultima dell’identità individuale, quando tutto il resto è polvere», chiosa James Hillman nel suo “Un terribile amore per la guerra”. Ma prima di imparare a essere combattenti; prima di pilotare aerei, navi o carri armati; prima di guidare brigate, stormi e flotte, a questi giovani si insegna come ottenere rispetto e imporre obbedienza. Anche in mezzo alle raffiche, anche con il corpo martoriato nelle pallottole.
Retorica? L’Europa ha rimosso la guerra e quando ci si infila preferisce parlare di “campagne umanitarie” o “operazioni di pace”. Eppure in questo momento i paesi della Ue hanno circa diecimila uomini in armi al fronte. I cadetti di queste foto finiranno a sparare e bombardare, in Afghanistan, in Iraq, in qualche conflitto africano o mediorientale: tutte le accademie ritratte sfornano ufficiali che sono realmente impegnati in prima linea. Sostituiranno i pennacchi con gli elmetti in kevlar, le bluse dai bottoni dorati con i giubbotti a prova di proiettile, le sciabole con i puntatori laser delle armi intelligenti.
Eppure i luoghi e le atmosfere della loro educazione marziale sono fuori dal tempo. Edifici che trasudano secoli, per inserire ogni allievo nella tradizione, il valore fondamentale nel conio degli aspiranti condottieri. La dimora ducale di Modena, l’istituzione napoleonica di Saint-Cyr fino al castello di Breda dove si formano i cadetti olandesi: è la fortezza che nel Cinquecento decise la guerra delle Fiandre, immortalata allora in un dipinto di Velázquez. L’accademia è un tempio, dove si celebra una liturgia di gesti, cerimonie, onori, labari e gagliardetti con regolamenti scritti o percepiti, con inni che evocano vittorie antiche. Sono riti tramandati agli uomini e, sempre più spesso, alle donne destinate alle battaglie tecnologiche. Un ponte tra passato e futuro, indispensabile per plasmare un cadetto e cercare di insegnarli come coniugare identità e uniformità.
Il momento più duro per i cadetti è quello del tirocinio: un mese di fuoco, una selezione continua. Non ci sono orari, bisogna passare di corsa dallo studio all’addestramento militare e agli esercizi fisici. Sonno e fame sono la costante di quei giorni in cui i “cappelloni” - il nomignolo delle reclute che un tempo avevano copricapi più larghi - vengono sottoposti a ogni pressione: «Bisognava testare se la voglia di fare l’ufficiale era reale e sentita fin nel profondo del cuore, espressione pura dell’attaccamento alla Patria e alla Bandiera», ricorda un allievo di Modena: «Eravamo certi, assolutamente certi, che tutto e tutti ce l’avessero con noi ed oggettivassero il loro disprezzo urlandoci contro dalle sei del mattino. Per tutto il giorno, ogni trasferimento andava fatto di corsa e sembrava che una mano invisibile avesse messo le nostre mete sempre dalla parte opposta rispetto a dove ci trovavamo; per l’intera giornata,costantemente, plotoni di corridori si lanciavano per saloni e scale urlando “Tenere la destra! Tenere la destra!”. Chi non avesse recepito il consiglio sarebbe stato inevitabilmente travolto». Il resto del primo biennio è comunque pesante. Chiusi dentro per settimane, con pochissimi permessi per uscire: brandelli di ore per mangiare o incontrare le fidanzate. La corsa rallenta, ma di poco, soltanto alla fine del secondo anno con l’arrivo dei gradi, quando la metamorfosi condottiera è completata. Il carattere dei ragazzi è stato spianato per fare germogliare l’ufficiale.
A quel punto i sottotenenti imparano discipline vecchie e nuove: cavalcano al galoppo e si lanciano con il paracadute, fanno immersioni subacquee e scherma, veleggiano e sciano, maneggiano fucili da commandos e fanno pratica sui simulatori di volo.
In quegli anni di frenetica clausura sboccia l’altro elemento decisivo per un militare di carriera. Nasce da solo, nei piazzali settecenteschi e nelle esercitazioni di tiro, nelle marce sotto la pioggia, nelle ore immobili a fare la sentinella, nelle notti in tenda e nelle veglie in branda: è il cameratismo, la fratellanza in armi. Un sentimento che va oltre l’amicizia. Se non lo vivi, non puoi capirlo. Il legame è così profondo da diventare assoluto. Persino l’archetipo del cinismo contemporaneo, il machiavellico Frankie Underwood di “House of Cards”, torna a essere spontaneo solo abbracciando i compagni d’accademia. In tre serie di telefilm, l’unica puntata in cui il personaggio interpretato da Kevin Spacey si lascia andare completamente è quella dedicata alla rimpatriata nel collegio militare. «Non c’entra ciò che passa o ciò che resta per sempre», spiega Underwood agli spettatori: «È qualcosa che riguarda tante voci individuali che per un momento diventano una sola voce. E quel momento dura la lunghezza di un respiro». È la consapevolezza che i tuoi compagni ci saranno sempre, nella pace e nella guerra, nella gioia e nel dolore: giovani o vecchi, saranno al tuo fianco fino all’ultimo dei giorni. Loro e solo loro sono la tua famiglia, fino al momento in cui porteranno in spalla la tua bara, mentre squillerà il suono finale di quella tromba che ogni mattina alle sei vi svegliava tutti insieme in accademia.