I baby boss di Gomorra, quando la realtà supera la fiction
O'Pop, Zecchitella, o'Malegno. Sono i ragazzini con la pistola del clan Giuliano che con la violenza hanno conquistato Napoli. Vorrebbero essere come Genny del serial targato Sky. Ma loro uccidono e muoiono davvero. Le intercettazioni choc contenute nell'ultima indagine della procura antimafia
Luigi Giuliano junior è un ventenne del “Sistema di Forcella” e come ogni camorrista vive nel terrore: «Cammino sempre con la pistola in mano, pure se devo andare nel vico dirimpetto». La giovane età non deve trarre in inganno, lui e i “compagni suoi” ostentano esperienza.
Le armi sono la loro identità e ne possiedono una quantità spaventosa. Impugnare un revolver li fa sentire grandi, anche se all’anagrafe sono ragazzini, tutti nati negli anni Novanta. Ma sparano facile, sparano per qualunque pretesto. Hanno allestito persino poligoni di tiro sui tetti dei palazzi utilizzando le antenne paraboliche come bersagli. Vivono in un eterno videogame convinti che dopo la scritta game over ci sia sempre un’altra chance. E così per tre anni il loro terrore cieco ha imposto una nuova legge di camorra nel centro di Napoli. Genny Savastano, quello della serie tv “Gomorra”, è il loro idolo.
E a leggere le 1.700 pagine dell’ordinanza che ha fatto finire in cella 60 di questi baby boss, c’è un senso di stordimento, perché fiction e realtà si sovrappongono. Prendete la vicenda di Totore, uno che a diciassette anni è considerato un pistolero esperto e si è conquistato con il piombo un posto da protagonista nel clan dei ragazzi terribili. Ha ucciso una persona solo perché gli aveva chiesto una sigaretta. Era l’alba del 10 febbraio 2014.
Quella sera il clan aveva un tavolo prenotato, in una delle discoteche più frequentate di Napoli, il Private One. La festa è finita con un loro coetaneo ammazzato a sangue freddo perché, appunto, si era permesso di domandare una sigaretta. La vittima si chiamava Maurizio Lutricuso, trucidato con sette colpi di pistola. Dell’omicidio è sospettato “Totore o’malegno”, all’epoca minorenne. Totore è considerato un impavido pistolero, tanto che «essendosi distinto per la sua temerarietà veniva sostanzialmente “arruolato”». I soprannomi del “Sistema” ricordano davvero i protagonisti del “Gomorra” televisivo.
Tra di loro si chiamano O’ Pop, o’ Russ, Zecchetella, Gigino, Polpetta, Ciro Ciro, o’ Palumm, o’ Malegno. Sono i giovanissimi affiliati di un cartello di camorra che in tre anni si è preso il centro di Napoli. Un gruppo spietato che ha seminato il panico tra i vicoli sgarrupati del ventre della città. Ragazzini in carne e ossa, a differenza di Genny Savastano, che ammazzano e muoiono davvero. Sono i Giuliano, eredi della dinastia criminale del vecchio re di Forcella, Luigi “Lovigino” Giuliano, che insieme ai fratelli era a capo di un’economia sommersa che sfamava migliaia di persone. Erano altri tempi. Ora quei rioni sono caduti in mano ai nipoti che non conoscono regole.
Girano per le strade formando delle batterie. Le “paranze armate “vengono annunciate dal rombo degli scooteroni 200 di cilindrata. E indossano il casco per nascondersi il volto nelle spedizioni punitive. Un anno fa “l’Espresso” era stato a Forcella per raccontare i “uaglioncelli” con la pistola. Due settimane fa una retata della squadra Mobile di Napoli, coordinata dalla procura antimafia di Napoli, ha messo un freno al clan che ha scippato il centro della città ai padroni storici, i Mazzarella. Per la “paranza dei bimbi”, così l’hanno soprannominata nel quartiere, si sono aperte le celle di Poggioreale. L’inferno dentro il quale la camorra spinge tante giovani vite, nella fiction così come nella realtà.
Il ruolo di capo clan è toccato ai discendenti diretti della vecchia guardia. Giuseppe, Guglielmo, Antonio, Luigi senior e junior, Salvatore. I nuovi “Giulianos” non hanno codici di affiliazione: la loro bibbia è la legge della strada. Le serate in discoteca, la cocaina, le costose bottiglie di champagne «da 150 euro l’una» e le immagini postate su Facebook per celebrare le loro notti brave, che spesso si concludono sparando. Si spara per niente, oppure per conquistare pezzi di territorio. Così è nato lo scontro con le famiglie di camorra Mazzarella e Caldarelli, che a piazza Mercato gestiscono il suk dei prodotti contraffatti. I Giuliano sono abituati a maneggiare armi e caricatori.
Ci sono decine di pagine di intercettazioni in cui tra di loro si vantano dei “ferri” che possiedono e custodiscono gelosamente. Come la «357 Magnum cromata con il manico di gomma, quello di Al Capone» raccontano esaltati i soldatini del Sistema, che hanno trasformato le viuzze in trincee di una guerra ignorata dal resto d’Italia. E il più delle volte colpiscono nel mucchio. Il 31 dicembre 2013, per esempio, mentre a casa Giuliano erano iniziati i preparativi per il cenone a cui avrebbe partecipato tutto il clan, uno degli scugnizzi di casa, Cristiano detto “Panzarotto”, aveva deciso di provare una delle pistole a disposizione del gruppo: «Mi vuoi far provare quella Sette (la pistola) qua nel vico». Alcuni istanti dopo, Mia Sumon, un immigrato dal Bangladesh, viene colpito da un proiettile vagante. “Panzarotto” lo racconta subito agli amici: «Dissi spariamo in aria, chiavai una botta in petto a un nero, il nero cadde a 20 metri sul volto santo».
È come se uccidere o ferire fosse un gioco, o una fiction, con la possibilità di resettare e di tornare all’inizio. Ma dietro ogni guerra c’è sempre un business da accaparrarsi. Per gli inquirenti il «motivo del contendere con i Mazzarella sono gli enormi introiti delle estorsioni agli ambulanti e delle piazze di spaccio». Un pentito racconta il funzionamento di una piazza di spaccio. E la somiglianza con il fortino della droga messo in piedi dalla famiglia Savastano è impressionante. «Lo spaccio avviene in una abitazione. Le persone corpulente aspettano giù e viene calato un paniere, entro cui viene messo il denaro e dopo viene confezionata al momento la quantità di stupefacente. C’è una telecamera presente in quasi tutte le piazze».
Il clan Giuliano incassava da ogni piazza quasi mezzo milione all’anno. Soldi che i “uaglioncelli”, spendevano in divertimento, vizi e serate. Agli affiliati invece spetta uno stipendio che va dai 140 a settimana, per le pedine più piccole, ai mille euro per i più alti in grado. Ma più aumentano i profitti, più il sospetto si insinua nell’organizzazione. «Questa è la sfaccimma della confidenza», dice uno dei fratelli Giuliano lamentandosi con Emanuele Sibillo dei dissidi insorti. Sibillo è il boss in erba del clan federato ai Giuliano. E spiega ai soci come leggere l’aggressione subita dal cassiere del gruppo: «Queste non sono stronzate, queste sono reazioni, sai quando viene l’arbitro vicino e ti dà il cartellino? Eh, questo è». Già: a 17 anni Sibillo sognava di fare il giornalista. Poi quel desiderio è stato inghiottito dalla camorra. Era riuscito a sfuggire alla grande retata, ma non ai clan nemici che l’hanno trovato prima della polizia e ucciso vicino al vecchio tribunale.
Un omicidio «eccellente», l’hanno definito gli inquirenti, nonostante fosse solo un ragazzino. Uno di quelli che insieme ai Giuliano ordinava estorsioni a tappeto: dagli Internet point agli ambulanti, dalle prostitute di via Tribunali ai parcheggiatori abusivi, nessuno era esente dalla tassa. Prendersi Napoli era il sogno di questi baby criminali. Un delirio interrotto dallo scatto delle manette. Quei vicoli però non trovano pace. A venti giorni dalla retata tre minorenni sono stati feriti con 11 colpi di pistola. Uno di loro è ritenuto vicino al cartello Giuliano-Sibillo, in guerra contro i Mazzarella, i vecchi padroni del centro che considerano i “muschilli” come Emanuele scorie da eliminare.