Partono dalla Siria, arrivano sulle coste turche e si affidano ai trafficanti. Che li fanno arrivare fin sulle isole greche. Da dove partono per il Nord europa. Sperando di trovare lavoro e di farvi arrivare anche le proprie famiglie
La chiamano la Saint Tropez della Turchia. Mare cristallino e spiagge dorate di giorno, vita notturna e feste alla moda non appena cala il sole. Sul lungomare di Bodrum, costa sudovest del litorale turco affacciato sull’Egeo, scintillano le insegne dei ristoranti di lusso. I bar all’aperto sono affollati da turisti in arrivo da ogni parte del mondo, mentre da un camioncino scoperto un gruppo di ragazze, strette in ridottissimi bikini maculati, invita i passanti all’Halikarnas, il club più esclusivo della città.
Sullo sfondo, nascosti dalla calca, accampati alla meglio nelle aiuole intorno alla marina, nei parco giochi poco distanti dal terminal degli autobus, sulla strettissima lingua di sabbia pietrosa che si distende accanto al porto, centinaia di migranti aspettano di poter salpare verso l’isola di Kos. Si tratta soltanto di poche miglia marine, eppure è un viaggio quasi impossibile, a vederlo con i loro occhi. Sono iracheni, afgani, soprattutto siriani, quasi sempre famiglie di almeno due generazioni.
“Siamo partiti dal nostro villaggio lo scorso marzo. Io, mia moglie ed i miei tre figli, due maschi ed una femmina. Il percorso è stato lunghissimo. Abbiamo attraversato il confine da Suruc, il punto di frontiera turco con Kobane, non appena la situazione si è calmata. Poi ci siamo messi in marcia verso Istanbul. Ci abbiamo messo cinque o sei giorni ad arrivare, fra autobus, lunghi tratti di strada passati in cammino e passaggi di fortuna. Abbiamo abitato per tre mesi in una casa abbandonata a Fatih, un quartiere della capitale turca vicino alla stazione. Non ne parla nessuno, ma in quella zona si sono sistemate tante famiglie come la nostra, tutte in fuga dalla guerra. Avremmo potuto scegliere di stare nei campi profughi al confine, certo, ma io volevo trovare un lavoretto, cercare di ricominciare una vita normale: la mia intenzione era quella di tornare a casa mia, non appena la situazione si fosse stabilizzata.”
Ahmad, 57 anni, viene dalla Siria. Per quasi tutta la sua vita ha fatto la spola con un vecchio camioncino pieno di sapone, frutta, carne, verdura ed ogni altro genere di merce immaginabile, fra il villaggio di Qibare e la città di Aleppo. “Li conoscevo a memoria quei 50 chilometri, ogni giorno, tutti i giorni, andavo e venivo, trasportando di tutto – racconta Ahmad - E poi ci siamo ritrovati con la guerra in casa, da un momento all’altro. Che cosa avremmo dovuto fare? Rimanere, magari aspettando il prossimo bombardamento, senza sapere se ad attaccarci sarebbe stato l’esercito di Assad oppure lo Stato Islamico? Siamo rimasti sino a quando è stato possibile, poi siamo andati via. Io ho ancora tre fratelli bloccati ad Aleppo, ci penso sempre. Mi fa male andare via dal mio paese, ci ho passato tutta la mia vita. Sono nato lì, sono cresciuto lì. Parlo solo l’arabo, ho quasi 60 anni ormai, ti pare che sia contento di andarmene in Europa, di vivere così, per strada? Ho lavorato tutta la mia vita e credo mi meriterei una vecchiaia più dignitosa di questa, ma devo provarci per forza, ad arrivare in Europa, lo devo fare per i miei figli”.
La storia di Ahmad è simile quella di altre migliaia di migranti, uomini e donne che nel corso degli ultimi sei mesi hanno deciso di abbandonare il proprio paese e di tentare l’infinito viaggio verso l’Unione Europea, attraversando la Turchia. Secondo quanto raccontano Ahmad e tanti dei migranti in bivacco incontrati sul lungomare di Bodrum, il biglietto di sola andata per uno dei gommoni con destinazione Grecia costa 1.000 dollari, un’enormità, soprattutto se si pensa che per un cittadino europeo un catamarano diretto verso l’isola di Kos costa appena 17 euro: il viaggio dura 20 minuti.
Le indicazioni dei trafficanti sono chiare. Una volta arrivati a pochi metri dalla costa, lo scafista abbandonerà la barca e tornerà indietro su un altro gommone in attesa, mentre i migranti dovranno buttarsi in acqua e percorrere in mare gli ultimi metri che li separano dalla riva. Per racimolare il denaro necessario alla traversata, molti dei profughi hanno venduto ogni cosa, passando alcuni mesi ad Istanbul ed Ankara, fra lavori di fortuna e collette messe insieme da familiari e conoscenti. In attesa che i capifamiglia arrivino dalle città, per le vie del centro di Bodrum le donne ed i bambini provano a mettere insieme qualche lira turca per mangiare, elemosinando spiccioli ai turisti di passeggio all’imbrunire.
"Qui adesso siamo soltanto io e Nadim, il mio figlio più grande, purtroppo non avevamo abbastanza soldi per partire tutti insieme – spiega ancora Ahmad - mia moglie e gli altri due figli sono ancora ad Istanbul, aspettando di ricevere nostre notizie. La mia idea è quella di attraversare i Balcani e poi arrivare in Germania o in Svezia, lavorare qualche mese risparmiando ogni centesimo e poi mandare i soldi alla mia famiglia per farli arrivare: quando ci penso mi sento felice, sarebbe meraviglioso riuscire finalmente, fra qualche mese, a stare di nuovo nella stessa casa”. Dell’apocalisse a cui vanno incontro, Ahmed come la maggior parte dei migranti in partenza verso il sogno europeo, hanno sentito soltanto qualche storia. In fuga da una guerra, dopo mesi di angoscia, lutti, privazioni, credono che in fondo, comunque vada, non possa accadergli nulla di peggio di quanto si sono lasciati alle spalle. Pensano che, tutto sommato, la parte più difficile del viaggio sia già stata compiuta e che un bel giorno, finalmente, potranno smetterla di fuggire.