Doveva succedere prima o poi: la fobia europea (italiani inclusi) per gli immigrati stranieri comincia a colpire come un boomerang quegli italiani che, per scelta o loro malgrado, sono diventati essi stessi immigrati stranieri in un altro Paese dell'Unione Europea. Il caso più eclatante è quello della Gran Bretagna, dove da tempo la stampa scandalistica ha preso di mira "il migrante Ue" in quanto scroccone del sistema sanitario, "turista del welfare" e invasore.
A rinfocolare la polemica sono arrivati i dati dell'ufficio nazionale di statistica della scorsa settimana. Riguardano non i trasferimenti di residenza tout court ma le aperture di "National Insurance Number" (in sigla, "Nino") che è l'equivalente del nostro codice fiscale. Danno quindi un quadro imperfetto delle migrazioni perché registrano solo i nuovi lavoratori o percettori di reddito, escludendo quindi i bambini o chi non lavora. Includono invece sia gli studenti (un quinto del totale delle nuove aperture l'anno scorso) sia i richiedenti asilo. Tuttavia la cifra del saldo netto di 329.000 di nuove aperture a marzo 2015 rispetto allo stesso mese del 2014 ha fatto notizia e ancor di più ha fatto scalpore il dato riguardante i "migranti UE": 269.000 in più, di cui 57.000 italiani – la seconda nazionalità dopo i polacchi.
Se si guarda anche al 2013, stiamo parlando di quasi 100.000 connazionali che hanno aperto un codice fiscale oltre la Manica, quanto un capoluogo di provincia che ha lasciato l'Italia e si è trasferito armi e bagagli nel Regno Unito. E d'altronde Londra ha tanti italiani quanto Firenze, ci sono una scuola (privata) italiana, un ambulatorio medico italiano, diversi club di tifosi delle nostre squadre di calcio, circoli di tutti i maggiori partiti politici. Una giornalista del Wall Street Journal ha scritto un articolo dimostrando come potesse vivere un'intera giornata parlando solo italiano, mangiando italiano, andando in un bar italiano e così via.
Ma questo è, diciamo così, solo folclore. Torniamo alla politica. I dati hanno fatto tanto più scalpore perché il Primo Ministro David Cameron aveva promesso già nel 2011 di ridurre il saldo netto di nuovi arrivi a 100.000 l'anno. Una promessa rivelatasi poi fragile, visto che la Gran Bretagna (anche se un quarto dei suoi cittadini non lo sa) fa parte dell'Unione Europea dove c'è la libertà di circolazione e di lavoro.
Così è intervenuto il Ministro degli Interni Theresa May, conservatrice come tutto il governo attuale e non nuova a dichiarazioni anti-immigrati: mesi fa sostenne che le missioni di salvataggio nel Mediterraneo erano un fattore di attrazione per chi voleva entrare in Europa. In un editoriale sul prestigioso Sunday Times ha scritto che la suddetta libertà di circolazione si intende per chi ha già un lavoro, non per chi lo viene a cercare, magari avvalendosi nel frattempo del welfare britannico – il "turismo del welfare" di cui parlano i tabloid. E quindi annunciando l'intenzione di porre la questione al centro dei negoziati che Cameron condurrà in questi mesi con la Ue in vista del referendum dell'anno prossimo sulla permanenza nell'Unione (a proposito, il comitato che doveva decidere la domanda sulla scheda, dopo un sondaggio, ha dovuto inserire nella domanda l'espressione "restare nella Ue" perché pare che appunto un quarto degli intervistati britannici non fosse conscio di farne già parte).
Affermazioni sbagliate quelle della May per diversi aspetti. Aiuta esaminarle anche per capire quanto siano altrettanto sbagliate campagne simili compiute da politici italiani. In primo luogo, la sua lettura della libertà di circolazione nella Ue è smentita dal sito ufficiale dell'Unione che ricorda come in base all'articolo 45 del Trattato sul funzionamento dell'Unione Europea ci sia libertà di "cercare lavoro in un altro Paese Ue", "rimanere lì anche dopo la fine dell'impiego", "usufruire di parità di accesso al lavoro" e a tutti gli altri benefici di legge con i cittadini del Paese ospite. D'altronde i titoli dei giornali hanno trascurato un dato: c'è sì un saldo netto di più di 300.000 arrivi in Gran Bretagna, ma questo è il risultato della sottrazione tra il numero totale di arrivi (circa 600.000) e il numero delle partenze dalla Gran Bretagna. Ci sono infatti ben 1.300.000 cittadini britannici che vivono in altri Paesi Ue, il 2,5% dei quali vive di sussidio di disoccupazione.
In secondo luogo, due terzi di quanti arrivano in Gran Bretagna hanno già un lavoro prima di arrivare. Altri lo trovano poco dopo essere arrivati, anche perché per vivere di solo welfare in Gran Bretagna bisogna essere proprio stoici (ci arriveremo tra poco). Tutti questi lavoratori Ue pagano tasse e consumano così tanto che, come rivelato mesi fa dal quotidiano Guardian, lo stesso governo considera che una parte della crescita del Pil sia dovuta a questi nuovi arrivi che molto danno e poco prendono: un giovane lavoratore produce valore aggiunto, tasse e contributi ma consuma meno servizi di un anziano locale. E poi, anche in Italia, chiunque compri un qualsiasi oggetto paga le tasse grazie all'Iva che si sia guadagnato quei soldi o no.
Un altro quinto dei nuovi arrivi, come detto, sono studenti universitari o post-laurea. Questi ultimi pagano, e profumatamente, per frequentare i corsi: per una laurea triennale si parla di 9.000 sterline l'anno, poco più di 11.000 euro che ovviamente contribuiscono a tenere in equilibrio i conti degli atenei inglesi. Eppure la May ha chiarito che una volta finita l'università non devono sognarsi di restare nel Paese.
Come ha ricordato il sottosegretario Della Vedova, la Gran Bretagna ha beneficiato sia del Mercato Unico che della libera circolazione delle persone. D'altronde, ma questo viene spesso dimenticato, il Regno Unito chiese ripetutamente di entrare nell'allora Cee proprio per uscire dal suo lungo declino economico – e l'Italia fu uno dei pochi Paesi ad essere sempre a favore.
Infine, due parole sul mito del "turista del welfare". Secondo la stampa scandalistica nella categoria rientrerebbero anche i richiedenti asilo, che in Gran Bretagna hanno diritto a ben 36 sterline alla settimana, l'equivalente dell'abbonamento settimanale alla metro di Londra per farsi un'idea del potere d'acquisto. L'idea che si possa attraversare la Manica dentro un camion (rischiando la vita) per tale cifra si commenta da se.
Ma anche per il semplice "migrante Ue" l'idea di fare turismo del welfare in Gran Bretagna mostra una certa ignoranza per cosa sia il vero welfare. Nel Regno Unito, tanto per fare due esempi, non esistono né il pediatra di base né tantomeno gli asili nido pubblici. Il sistema sanitario pubblico lascia molto a desiderare. Mandare un bambino al nido costa circa 1.500 sterline al mese. Se si è in cerca di lavoro, si riceve un sussidio che varia tra le 58 e le 73 sterline alla settimana. Se si vive a Londra questo basterà a vivere 2-3 giorni alla settimana (un po' di più altrove), negli altri un salutare digiuno. Magari passato a leggere, sui giornali italiani, dichiarazioni di nostri uomini politici contro gli immigrati sanguisughe.
Mattia Toaldo è analista presso lo European Council on Foreign Relations a Londra, dove vive da quasi tre anni