
Quello della mala del Brenta fu l'unico caso in cui a un'organizzazione criminale di origine settentrionale venne applicato il 416-bis del codice penale, cioè l'associazione di tipo mafioso. Non si sa, però, se la stessa accusa reggerà sino al termine del processo anche nei confronti di Massimo Carminati e sodali. Perché sembra più difficile applicare questa norma altrove di quanto non lo sia stato in Sicilia, Campania o Calabria?
La norma funziona, il problema non è la fattispecie giuridica. Il guaio è il ritardo culturale di molti giudici. In Emilia Romagna, per esempio, alcuni mafiosi non sono stati condannati in quanto tali, ma solo per i singoli reati che avevano commesso per conto dell'associazione a cui appartenevano. In pratica, si è tornati alla situazione precedente al 1982 e all'introduzione dell'articolo 416-bis codice penale. È necessario che i magistrati sappiano indirizzare le indagini e valutare i fatti, perché spesso il modo di agire delle mafie al Nord è diverso da quello utilizzato al Sud. Negli ultimi anni le condanne per associazione mafiosa sono arrivate anche in regioni come il Piemonte e la Lombardia, ma si tratta di organizzazioni che comunque dipendono dalla casa-madre meridionale.
Mafie al Nord come al Sud, quindi. Ma il Mezzogiorno sembra sempre fare più fatica per risollevarsi dal declino, come attestano anche i recenti dati sul suo sviluppo...
La colpa dell'arretratezza in cui versano le nostre regioni del Sud è da attribuire in buona parte all'inadeguatezza delle risposte fornite dalla politica, dal Governo e dal Settentrione. Lo dico da calabrese, le responsabilità non sono solo del Sud. Per risollevare il Mezzogiorno sono indispensabili due passaggi: creare occupazione e selezionare – direi proprio bonificare – la classe dirigente.
Professor Ciconte, come vi è nata l'idea dell'Atlante delle mafie?
Io e gli altri due curatori abbiamo pensato che servisse una riflessione scientifica sulle mafie, un lavoro di ricognizione che mettesse insieme le informazioni riguardanti tutte le organizzazioni criminali presenti sia in Italia sia a livello internazionale. Gli argomenti da affrontare erano tanti, perciò li abbiamo divisi in più volumi. Nel quarto ci concentreremo soprattutto sugli aspetti economici della criminalità organizzata e sulle differenze nelle strategie di contrasto alla mafia e al terrorismo.
Sabato prossimo lei presenterà a Mantova il terzo volume, nel quale non mancano gli spunti interessanti anche in riferimento all'attualità...
L'Atlante si apre con un mio focus sulla 'ndrangheta, che resta l'associazione meno conosciuta, e si chiude con la parte dedicata ai gruppi criminali attivi nei Paesi dell'America latina. Ma c'è pure un saggio dei pm Michele Prestipino e Giuseppe Pignatone sulla mafia a Roma. Nella Capitale è fiorita un'organizzazione totalmente originale, un sodalizio composto da personaggi romani di nascita, che ricorda, appunto, la mala del Brenta di Felice Maniero. L'inchiesta sulla banda di Carminati dimostra ancora una volta che si può registrare la presenza mafiosa anche fuori dai contesti tradizionali del Sud.
Lei insegna storia delle mafie presso le Università di Roma Tre e di Pavia. A Milano Nando Dalla Chiesa ha creato da tempo un corso di taglio sociologico e un gruppo di ricerca, mentre a Napoli Raffaele Cantone insegna legislazione antimafia. Quanto è importante preparare le nuove generazioni di professionisti sugli aspetti economici, giuridici o sociali delle mafie?
È fondamentale. I giovani devono essere preparati su questi fenomeni criminali, soprattutto gli studenti di facoltà come Economia e Giurisprudenza. Io stesso sono stato invitato dal Csm a tenere alcune lezioni sia per magistrati in carriera sia per quelli alle prime armi: mi chiedo se non sarebbe stato meglio che avessero studiato la mafia prima, già sui banchi di scuola... Se così fosse, si eviterebbero probabilmente quegli errori, quelle sottovalutazioni e quegli stereotipi di cui parlavo prima.