Not (Engaged() in Education, Employment or Training in italiano lo traduciamo con “inattivo”. Si tratta di quelle persone, soprattutto di età compresa tra i 18 e 40 anni, che non nutrono più alcuna speranza di trovare lavoro. Laureati o diplomati che in Italia impiegano più di tre anni per entrare nel mondo del lavoro e, quando ci riescono, il precariato resta la loro condizione per molti anni.
La drammaticità di questo dato, l’Istat ci dice che solo il 53% degli italiani trova un’occupazione entro tre anni dalla laurea, risulta ancora più evidente dal confronto con gli altri paesi europei, dove per i laureati la media è dell’80% nello stesso periodo. I diplomati in Italia sono quasi senza speranza: il 30% riesce a trovare lavoro nei tre anni successivi al conseguimento del diploma, di fronte a percentuali europee che invece mostrano una tendenza opposta. In Francia 75%, in Gran Bretagna l’83%, e in Germania il 90%.
E poi ci sono, come diretta conseguenza, i dati che descrivono l’emorragia di risorse umane che - secondo l’Istat nel 2014 quasi centomila persone (il 30,4% in più rispetto al 2012) hanno trasferito la propria residenza all’estero - non fanno giustizia della realtà dei fatti, ancora più drammatica. Se da un lato le città più “abbandonate” sono le più insospettabili (Roma, Milano e Torino), dall’altro esiste un numero altissimo di persone che non ha ancora trasferito la propria residenza all’estero per questioni burocratiche, per mancanza di tempo, ma anche e soprattutto con la speranza di poter un giorno fare ritorno.
La metà degli italiani che ha trasferito la propria residenza all’estero ha meno di 40 anni, si tratta del 34,3% in più rispetto al 2012: su mille italiani tra i 18 e i 40 anni, 3 decidono di lasciare il paese.
Se le città maggiormente colpite dal fenomeno sono Milano (3.300 cambi di residenza), Roma (quasi 3mila cambi di residenza) e Torino (1.650 cambi di residenza), è evidente che non si parte solo per mancanza di lavoro, ma soprattutto per mancanza di prospettive e di reali opportunità.
La rotta sud-nord continua invece a essere battuta da chi non ha scelta ed emigra per poter lavorare. Palermo e Napoli sono ancora le città da cui maggiormente si parte per non tornare. E se questi dati, che continuano a fotografare una situazione di crisi, li usassimo per calcolare l’indice della felicità del nostro paese? Se cercassimo di capire quanto gli italiani sono felici considerando la necessità che hanno di trasferirsi altrove?
Spesso accade che si parta per studiare o per costruirsi competenze e si finisce per comprendere che non si potrà mai più tornare indietro, che il viaggio è a senso unico. Uno studente che da un paese dell’entroterra calabrese, campano, pugliese, molisano o anche umbro, toscano, piemontese decida di studiare architettura, ingegneria, ma anche lingue o lettere a Milano, difficilmente tornerà indietro, perché si accorgerà che il luogo in cui ha studiato è anche quello d’elezione per poter iniziare a costruirsi una carriera. Se poi arriva anche la decisione di andare a perfezionare la formazione all’estero e si pensa di poter far ritorno con maggiori competenze, risulta invece estremamente difficile far incontrare il profilo che ci si è costruiti all’estero con l’effettiva domanda italiana.
Se prendiamo in considerazione l’utilizzo che gli italiani fanno dei personal computer e di internet, non possiamo non tener presente che quasi il 40 percento della popolazione è offline. Ci sono interi settori che dovrebbero essere completamente informatizzati eppure non lo sono. La connessione dovrebbe avere costi inferiori e dovrebbe essere migliorata ovunque. In stazioni, aeroporti, in piazze e luoghi pubblici ci dovrebbe essere wifi gratuito, ma in Italia è solo argomento da propaganda politica. Se pensiamo poi alla considerazione che si ha dei profili professionali legati al web - mi viene in mente ciò che disse il governatore della Campania Vincenzo De Luca a Luigi Di Maio, che nel curriculum ha scritto di essere stato webmaster; secondo De Luca webmaster equivale a sfaccendato -, ci rendiamo conto di come, se nel periodo di studio o formazione all’estero è capitato di progettare, costruire e gestire un sito web, qui da noi, nell’opinione di parte della classe dirigente, sembrerà un altro modo per dire che si è stati in vacanza, che si è perso del tempo. È evidente che questo non è un paese per giovani e che nemmeno ci prova a esserlo. E allora perché tornare?