La Repubblica può tornare a disporre di decine di miliardi di dollari in asset finora congelati e riaprire le porte dell'economia agli investimenti stranieri. I benefici sono enormi. E gli imprenditori italiani sono pronti a contribuire

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Per il presidente della Repubblica islamica d'Iran, Hassan Rohani, è «un nuovo capitolo nelle relazioni tra l'Iran e il mondo». Per il suo omologo statunitense, Barack Obama, «un'opportunità unica» che «rende il mondo più sicuro». Mentre la rappresentante della politica estera dell'Unione europea, Federica Mogherini, parla di «una promessa che diventa realtà».

Sabato sera Yukya Amano, il direttore generale dell'Agenzia internazionale per l'energia atomica (Aiea), ha reso noto che il governo iraniano ha rispettato tutti gli impegni sul programma nucleare assunti il 14 luglio 2015 con il gruppo dei 5+1 (Usa, Cina, Francia, Germania, Russia e Regno Unito).

Ha ridotto di due terzi le centrifughe di arricchimento dell'uranio, bloccato l'impianto di Fordow, rimosso il nucleo dal reattore della centrale di Arak. È un interlocutore credibile, disposto a collaborare: per quindici anni il suo programma nucleare sarà sottoposto a un rigoroso monitoraggio. Merita una ricompensa, come da accordi.
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La dichiarazione del capo dell'Aiea è stata seguita da una dichiarazione congiunta del ministro degli Esteri iraniano, Javad Zarif, e di Federica Mogherini, che a Vienna hanno annunciato la fine delle sanzioni internazionali all'Iran.

Per la Repubblica islamica, si apre una nuova pagina. Può tornare a disporre di decine di miliardi di dollari in asset finora congelati e riaprire le porte dell'economia agli investimenti stranieri. I benefici sono enormi. Per il primo vice-presidente iraniano, Eshaq Jahangiri, il via alle sanzioni farà risparmiare 15 miliardi di dollari all'anno sui costi delle transazioni commerciali, sulle quali le sanzioni pesavano per un 15% del totale. Mentre per la Banca centrale di Teheran la riapertura ai circuiti internazionali del sistema bancario locale consentirebbe di far tornare in patria circa 30 miliardi in riserve estere, a lungo congelate in conti esteri (il dipartimento del Tesoro degli Usa parla di 50 miliardi).
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Subito dopo l'annuncio dell'Aiea, l'Unione europea ha rimosso l'embargo sull'acquisto del petrolio iraniano, oltre alle restrizioni sul commercio, sul sistema bancario e assicurativo. Aziende, privati e fondazioni iraniane - fin qui sulla lista nera - possono tornare a fare affari con gli europei. Teheran ambisce a recuperare in fretta il tempo perduto: in un decennio, il bilancio dei rapporti commerciali tra l'Ue e l'Iran è passato da 32 miliardi di dollari l'anno registrati prima delle sanzioni agli attuali 9 miliardi.

Più difficile, il rapporto con gli Stati Uniti. I decreti del presidente Obama depennano dalla “lista nera” una lunga serie di individui e aziende iraniane, eliminano le sanzioni secondarie per le aziende e i gruppi non statunitensi che fanno affari con interlocutori iraniani (aziende che finora rischiavano sanzioni severe), ma confermano l'embargo commerciale primario per le aziende americane (non per le loro sussidiarie), così come le sanzioni per quei gruppi e individui che secondo gli Usa violano i diritti umani o sostengono il terrorismo.

Si tratta comunque di una svolta storica, frutto di un lungo e complicato lavoro diplomatico, sul cui esito alcuni anni fa - quando l'Iran era annoverato tra i paesi dell'“asse del male” - in pochi avrebbero scommesso. É la vittoria della diplomazia, ha dichiarato sabato sera a Vienna il segretario di Stato Usa, John Kerry. Una vittoria per Obama, che sull'accordo sul nucleare ha giocato una partita importante, fatta di pragmatismo, più che di idealismo. Gli Stati Uniti non hanno più la forza e le capacità di proiettare egemonia su tutti i fronti. La diplomazia supplisce alla forza che viene meno. L'accordo con Teheran segna la fine del mondo unipolare a stelle e strisce, il definitivo passaggio dall'hard power muscolare di George W. Bush al soft power di Obama. Che nel riavvicinamento all'Iran vede l'occasione per disimpegnarsi con più facilità dal fronte mediorientale, per dare finalmente sostanza al pivot asiatico.

La scelta strategica di Obama non piace a tutti. Al Congresso c'è chi continua a non fidarsi del nemico storico. Chi ritiene che Obama abbia concesso troppo, e ottenuto poco. Vengono messi sulla bilancia i 4 cittadini statunitensi - incluso il giornalista del Washington Post Jason Rezaian - liberati domenica dalle prigioni iraniane con i 7 iraniani (6 dei quali con doppia cittadinanza) usciti da quelle americane. Tra i Repubblicani, c'è chi aspetta il primo passo falso di Teheran, perché «l'Iran è un pericolo per la nostra sicurezza nazionale più grande di prima», e chi pensa di provocare il governo di Rohani, affinché abbandoni la strada del dialogo.

Domenica il Dipartimento del Tesoro americano ha annunciato nuove sanzioni legate al programma missilistico iraniano, aggiungendo alla lista nera cinque cittadini iraniani e sei aziende con sede negli Emirati Arabi Uniti e in Cina, accusati di aver fornito informazioni o materiale per lo sviluppo del programma balistico. Qualcuno ci vede una mossa tattica, un modo per rassicurare i falchi del Congresso e l'alleato in Medio Oriente, Israele, che giudica un tradimento l'apertura della Casa Bianca all'Iran.

In casa sua, il presidente iraniano deve fare i conti con opposizioni simili. Giornali e tv hanno accolto la notizia della fine delle sanzioni con toni entusiastici. Ma c'è anche chi rema contro. Chi dice che un grande paese come l'Iran non debba dipendere dalla benevolenza degli Stati Uniti. Chi sostiene - come il quotidiano conservatore Javan – che ora occorrerà maggiore vigilanza, perché aprendo l'economia all'estero arriveranno le infiltrazioni degli americani. Chi accusa il ministro degli Esteri Javad Zarif - regista dell'accordo - di aver svenduto il paese.

Eppure dietro alla svolta conciliatoria di Teheran c'è lo stesso Ali Khamenei, la Guida suprema, che ha avallato la scelta del negoziato ben prima che Rohani salisse al potere nel 2013, tenendo a bada gli oppositori. I falchi di Teheran hanno dovuto riconoscere che il paese voleva porre fine all'isolamento internazionale. Preoccupati della spinta demografica di un paese giovane e culturalmente vivace, hanno dato il via libera. In cambio hanno ottenuto che Rohani cedesse loro i dossier sulle politiche per la sicurezza in Medio oriente, e che rinunciasse alle riforme in ambito sociale. Ma non intendono mollare le redini del potere.

Per ora Rohani incassa la vittoria diplomatica, netta. È stato eletto con la promessa di tirar fuori il paese dall'isolamento in cui l'aveva cacciato il suo predecessore, Ahmadinejad. È riuscito nella difficile impresa. Ma la sua forza, l'opinione pubblica, è anche la sua debolezza: le aspettative della popolazione sono altissime, specie tra i più giovani, impazienti, mentre ci vorrà del tempo prima che i benefici dell'accordo si concretizzino.

Per Rohani, era comunque importante che l'«implementation day» avvenisse prima del 26 febbraio, quando in Iran si terranno le elezioni legislative per il rinnovo del Majles, il Parlamento (290 membri), e dell'Assemblea degli Esperti, l'organo che ha il compito di nominare e valutare l'operato della Guida suprema. Incassando il successo sul nucleare, Rohani dimostra di saper contare sullo scacchiere internazionale, e di avere l'autorevolezza necessaria anche in patria, a dispetto delle opposizioni interne. Un buon punto di partenza per provare a cambiare con le urne gli equilibri del prossimo parlamento - ora a maggioranza «conservatrice» - e per essere eletto tra i membri dell'Assemblea degli Esperti.

Per capitalizzare il successo diplomatico, Rohani deve però ridare fiato all'economia. Le premesse non sono buone. Decenni di isolamento, 13 anni di sanzioni hanno messo in ginocchio il paese. Il presidente iraniano è già riuscito a portare l'inflazione dal 40% registrato ai tempi di Ahmadinejad all'attuale 13%, ma l'economia arranca e dal giorno dell'accordo nucleare del luglio scorso il rial, la moneta locale, perde terreno rispetto al dollaro. Ieri Rohani ha presentato al Parlamento l'ipotesi di bilancio per il prossimo anno fiscale (20 marzo 2016/20 marzo 2017). Punta a una crescita dell'8% annuo, ma sa che non può ottenerla soltanto con la domanda interna. «Ci vogliono investimenti stranieri tra i 30 e i 50 miliardi di dollari l'anno», ha sostenuto.

Tutti gli occhi sono puntati sul fronte energetico. Ieri Miguel Arias Canete, Commissario europeo per il Clima e l'Energia, ha fatto sapere che la prima missione di valutazione tecnica della Commissione da lui guidata si svolgerà già a febbraio, per studiare possibili aree di cooperazione nel settore energetico, dal nucleare al petrolio, dal gas alle energie rinnovabili.

Il petrolio iraniano, in particolare, fa gola a molti. Nel 2011, Teheran esportava circa 3 milioni di barili al giorno. Con le sanzioni, il volume commerciale si è ridotto a circa 1 milione, destinato soprattutto ad acquirenti asiatici (Cina, India, Giappone e Corea del sud), esclusi dal sistema delle sanzioni. Obiettivo immediato del governo, ha sostenuto Amir Hossein Zamaninia, vice-ministro del Petrolio e del commercio internazionale, è di aumentare subito la vendita e l'esportazione di 500,000 barili al giorno, di aggiungerne un altro mezzo milione in pochi mesi e di arrivare a 2.5 milioni di barili al giorno entro il prossimo anno. Obiettivi ambiziosi. Per qualcuno inverosimili.

In prima fila, i vecchi acquirenti, europei in testa: l'Italia con l'Eni, la Spagna con Repsol, la Francia con Total, aziende le cui delegazioni hanno conquistato le prime file nella conferenza di Teheran dello scorso novembre, quando le autorità iraniane hanno presentato agli investitori stranieri i nuovi termini contrattuali.

Per l'Europa, ha ricordato l'amministratore delegato dell'Eni, Claudio Descalzi, il ritorno dell'Iran sul mercato internazionale è un vantaggio, perché «significa maggiore diversificazione di fonti energetiche». Un modo diplomatico per dire che l'Iran permette all'Ue di diminuire la dipendenza dalla Russia, con cui i rapporti - dopo la crisi ucraina - sono raffreddati. Ma per riportare la produzione iraniana al massimo, nota Descalzi, ci vogliono almeno 150 miliardi di dollari di investimenti.

Rohani lo sa. E sa una cosa ancora più importante: il petrolio non basta più. Il mercato è già saturo, sovra-fornito. Il ritorno dell'Iran nell'arena dei paesi produttori potrebbe farne scendere il prezzo ulteriormente, rispetto ai 30 dollari al barile di questa settimana, minimo storico da 12 anni. In rapporto ad altri paesi produttori di petrolio, l'Iran sembra meglio attrezzato per fronteggiare uno scenario simile. Costretto a diversificare le entrate a causa dell'embargo, da anni punta su altri settori. Il 5 gennaio il portavoce del governo, Mohammad-Bagher Nobakht, ha dichiarato che nel prossimo anno fiscale la dipendenza dalle entrate del petrolio scenderà sotto il 25%. Un bel salto, rispetto a circa il 70% di un decennio fa.

In quest'ottica va letta anche la decisione di aumentare le entrate legate al sistema di tassazione. L'obiettivo per l'anno fiscale 2016-17 è portare nelle casse dello Stato 860 trilioni di rial (23 miliardi di dollari). Oggi le imposte equivalgono al 7% del prodotto interno lordo. Secondo Ali Tayyebnia, ministro dell'Economia e della Finanza, il 43% dell'intera economia iraniana è esclusa dal pagamento delle tasse. Mentre un altro 20% fa capo a quell'economia sotterranea che le autorità non riescono a monitorare. Tanto meno a tassare.

Rohani è intenzionato a invertire la rotta. In parte già l'ha fatto: quest'anno, per la prima volta in mezzo secolo, gli introiti legate alle tasse hanno superato quelli del petrolio. Il presidente della Repubblica islamica ha voluto mettere mano anche alle leggi, oggi più dure contro gli evasori e contro chi li facilita. E sta cercando di mettere la briglia e controllare i grandi conglomerati economici controllati dalle Guardie della rivoluzione e dalle fondazioni religiose come la Astan Quds Razavi, fin qui esenti dal pagamento delle imposte.

Le novità sul fronte interno si accompagnano all'attivismo sul fronte internazionale. l presidente cinese sbarcherà a Teheran sabato prossimo, il 23 gennaio. «La Cina è stato un paese amico anche sotto le sanzioni, e Teheran non si scorda mai degli amici», ha detto Rohani. Due giorni Rohani raggiungerà l'Europa. Il 25 è atteso a Roma, il 26 a Parigi. In Italia - prima delle sanzioni secondo partner commerciale europeo dopo la Germania - il rappresentante iraniano troverà una vasta platea di imprenditori pronti a riallacciare i rapporti.

In campo economico, ha detto Rohani all'Ansa, con l'Italia «non vi sono mai stati ostacoli, tanto più oggi con la caduta delle sanzioni». Nel corso della visita italiana, Rohani prevede di discutere di investimenti e partnership in «industria, infrastrutture, energia e scienza». Per l'Iran si apre un nuovo capitolo. Gli imprenditori italiani sono pronti a contribuire.