Il disimpegno degli Usa in Medioriente. La scelta di Teheran come interlocutore. e l'Arabia Saudita che si comprerà le atomiche in Pakistan. Dando il via alla proliferazione. Parla Uzi Rabi, direttore del "Moshe Dayan Center" di Tel Aviv

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L'accordo, qualunque accordo, sarà un «brutto accordo», «molto brutto». In Svizzera si arriva a un'intesa di massima sul nucleare iraniano da firmare però, coi dettagli, alla fine di giugno, ma Uzi Rabi, israeliano, direttore del “Moshe Dayan Center” dell' università di Tel Aviv, uno dei massimi esperti di questioni mediorientali, anche senza conoscere i dettagli lo boccia a prescindere. In questa intervista con “l'Espresso” l'accademico, autore di numerosi saggi e libri sull'area più calda del pianeta, spiega perché.

Professor Uzi Rabi, il suo pessimismo a cosa è dovuto?
«Dal fatto che se anche sapremo, d'ora in poi, cosa succede a Fordow o a Natanz (due luoghi conosciuti dove si processa l'uranio, n.d.r.) non riusciremo mai a sapere nulla di altri siti segreti dove l'arricchimento continuerà. E non sapremo che cosa sarà possibile o meno ispezionare».

Per riassumere: lei ha poca fiducia circa i meccanismi di controllo e nessuna circa la buona fede degli iraniani. Eppure il presidente degli Stati Uniti Barack Obama è deciso a raggiungere l'obiettivo.
«Sì, Obama lo vuole fortemente. È stata la sua politica fin dal suo arrivo alla Casa Bianca ed è sempre stato circondato da gente che lo spingeva in questa direzione: perché voleva stabilizzare l'area dando agli sciiti per la prima volta la guida di uno Stato arabo, l'Iraq. Cosa che, tra l'altro, sta facendo impazzire i sauditi».
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Ma qual è la reale capacità dei persiani di confezionare l'atomica?
«L'ayatollah Ali Khamenei, la Guida Suprema, si è convinto che è più facile arrivare alla bomba con l'accordo che senza accordo. Sembra un paradosso ma non lo è. Così potrà anche rimuovere le sanzioni. E assecondare le promesse fatte dal presidente Hassan Rouhani quando fu eletto di legittimare il regime verso la comunità internazionale. Di fatto avranno le chiavi per decidere quando e come fare il salto definitivo verso la fabbricazione dell'ordigno nucleare».

Lei esclude totalmente la possibilità che la comunità internazionale possa, attraverso gli ispettori, controllare che effettivamente l'Iran arricchisca l'uranio per scopi civili (come dice) e non militari?
«No, non hanno nessuna possibilità di controllare. Sa quale sarebbe un buon accordo? Quello che prevede la completa trasparenza e che non ci siano limiti posti alle ispezioni. Mentre Rouhani ha già affermato: “Gli americani ci chiedono una maggiore (greatest) trasparenza”. Che significa? La trasparenza va bene solo se è completa. Se è solo “maggiore” non è completa. E non va bene».

Certo gli iraniani si stanno dimostrando abili negoziatori.
«Lo sono. Sanno fare la diplomazia. Rouhani e Moham Jawad Zarif, il ministro degli Esteri, parlano bene inglese sanno come condurre un negoziato. Inoltre hanno un'agenda ben precisa, un percorso per diventare egemoni nella regione. Usano anche argomenti che fanno riferimento alla loro “alta civiltà” che ha 3.000 anni di storia, si sentono superiori ai turchi e agli arabi. Hanno una orgoglio nazionale che li motiva».

Anche se pure dentro il regime ci sono posizioni diverse.
«Sì, almeno due facce. Rouhani e Zarif da una parte. I pasdaran della rivoluzione e i basij, ovvero i giovani delle brigate paramilitari, dall'altra. Chi controlla l'economia iraniana sono i pasdaran i quali non vogliono nessuna capitolazione su nessuno dei punti in discussione a Losanna».

Ma insomma, professore, la cosa che più interessa il mondo è sapere quanto sono vicini al nucleare i militari. Mesi? Anni?
«Non è così importante. L'obiettivo degli ayatollah è quello di creare le condizioni per diventare facilmente uno Stato nucleare, decidendo quando e come compiere l'ultimo passo. Vedono la debolezza dei Paesi arabi, hanno già un'influenza decisiva su Damasco, Beirut, Sana'a. Lo Yemen per loro non è solo un asset strategico, ma una pedina del loro disegno egemone. L'America insomma, concludendo l'accordo e abbracciando l'Iran, getta nel panico i Paesi arabi».

Se l'Iran arriverà alla bomba la vorranno anche loro. Teme una proliferazione del nucleare nella regione?
«È sicuro. L'Arabia Saudita ad esempio non la fabbricherà in proprio ma comprerà una bella bomba già pronta fatta in Pakistan».

Un argomento spesso usato da alcuni iraniani è questo: “Israele ha la bomba, perché non potremmo averla noi?”. Lei cosa risponde?
«Le rispondo a mia volta con una domanda. Si chieda perché gli Stati arabi convivono facilmente con l'idea che Israele sia uno Stato nucleare mentre rifiutano di considerare l'ipotesi che ce l'abbia l'Iran».

Forse perché, anche se sembra paradossale, si fidano più della bomba di un Paese democratico che di quella di una teocrazia?
«È più sofisticato di così. Io personalmente non credo che Teheran voglia usare l 'atomica per distruggere un altro Stato. Ma gli arabi stanno realizzando che se l'Iran avrà il nucleare cambierà tutta la geopolitica della regione. E, a causa del nuovo rapporto di forza, nei consessi internazionali, Opec, Onu ecc. ecc., tutti vorranno seguire la linea iraniana».

Dunque come reagiranno?
«Non vedo blocchi coesi in Medio oriente. Ognuno andrà per la sua strada, perseguendo i propri interessi. Secondo la logica per cui il nemico del mio nemico è mio amico. Per esempio Israele dovrà sostenere l'indipendenza dei curdi del Kurdistan iracheno».

Anche quella dei curdi in Siria o in Turchia?
«Lì è più complicato. Soprattutto per la Turchia. Dove Erdogan sta conducendo un gioco sporco e compra il petrolio dallo Stato Islamico. Ecco la dimostrazione che ognuno fa ciò che più gli conviene».

È prevedibile che cambieranno le frontiere nella regione.
«Ma sono già cambiate! Non esiste più la Siria, non esiste l'Iraq, non ci sarà più nemmeno il Libano. E allargando l'orizzonte all'Africa non esiste più la Libia. Si sta tornando a una sorta di identità primordiale e non nazionalistica dove ci si sente, oggi, sciiti, sunniti, curdi, alawiti eccetera. Questo non riguarda certo tre giganti come Turchia Iran ed Egitto ma quando si parla degli altri Stati che abbiamo conosciuto si sta affermando un'identità diversa da quella nazionale».

Una sorta di balcanizzazione del Medioriente?
«Più che una balcanizzazione una somalizzazione. Stati deboli che non si reggono più».

Gli Stati Uniti di Obama pare siano orientati verso un progressivo disimpegno dall'area. È perché nel 2017 raggiungeranno l'indipendenza petrolifera e non avranno più bisogno del greggio arabo?
«È una ragione accanto a molte altre. Anche se non credo ci sia una vera strategia americana. Un diplomatico Usa mi ha detto: «Non siamo mai stati così consistenti nella nostra inconsistenza». Dipinge bene la situazione. Basti pensare a come hanno agito con Mubarak in Egitto o come si stanno comportando in Yemen (le ultime truppe Usa fuggite davanti all'avanzata verso sud degli Houti, n.d.r.). Non esiste una formula, oggi, per risolvere i problemi del Medioriente, nessuno la conosce. Paradossalmente l'unico conflitto che potrebbe trovare una soluzione è proprio quello palestinese perché è una causa nazionale. E poi c'è un problema che renderà il Medioriente instabile per i prossimi decenni...».

Quale?
«Ci sono sette milioni di profughi causati dalle varie guerre che possono provocare una crisi umanitaria dalle conseguenze incalcolabili».

Il ministro dell'Intelligence israeliano Yuval Steinitz, davanti alla prospettiva dell'accordo sul nucleare, ha ribadito che lo Stato ebraico ha anche l'opzione militare per fermare la corsa di Teheran verso la bomba. È dunque realistico pensare a bombardamenti israeliani sull'Iran?
«No, è troppo tardi. Forse sarebbe stato possibile farlo dieci anni fa. Davanti a un accordo, Israele dovrebbe fare dei raid contro il volere praticamente del resto del mondo. Impensabile».

Quali altre strade sono percorribili, dal vostro punto di vista, per bloccare prima o poi quell'intesa?
«Bisognerebbe continuare con le sanzioni e poi vedere se l'Iran è davvero disposto a un accordo su basi più solide circa le loro intenzioni di non arrivare alla bomba. Ma degli Usa abbiamo detto e agli europei fa gola il mercato iraniano. L'America ha promesso agli arabi che saranno protetti da una sorta di loro ombrello nel caso di una politica aggressiva di Teheran... Vedremo. Sta di fatto che i Paesi sunniti hanno appena varato una coalizione militare che è una risposta non solo all'Iran ma anche a Washington. Segnala il loro disappunto».

Ma se fra un anno e mezzo negli Usa dovessero vincere i repubblicani tutto potrebbe mutare.
«Non credo. È in atto un cambiamento strutturale degli orientamenti americani. Non vedo, anche in presenza di un presidente repubblicano, gli Stati Uniti che si ripresentano con loro truppe nella regione. L'America non è fuori dal gioco ma il messaggio che oggi manda agli attori sul terreno è che ha scelto l'Iran come Stato guida. E gli altri stanno ricalcolando le loro strategie, giorno dopo giorno».