Le nuove tecnologie potrebbero avere un effetto negativo sull'occupazione da qui al 2020. Il World economic forum indica però le possibili soluzioni. Che il nostro Paese sta applicando poco e male
Robot e stampanti 3D ci costeranno 5 milioni di posti di lavoro. Colpa dell'innovazione? No. Colpa di politiche del lavoro e formazione che non non tengono il passo del mercato. Lo afferma il World economic forum
nel report "The future of jobs".
A guidare quella che il Wef definisce "
quarta rivoluzione industriale" saranno mobile, cloud technology, big data, energie rinnovabili, internet of things, sharing economy, robotica, veicoli autonomi, intelligenza artificiale, biotecnologie e stampa 3D.
Il report stima che esuberi, automazione e disintermediazione porteranno a una perdita di 7,1 milioni di posti di lavoro. Allo stesso tempo, ne verranno creati 2,1 milioni, in comparti sempre più specializzati.
La quarta rivoluzione industriale non dipende solo dai settori in rapida evoluzione, ma anche dal mondo nel quale si sviluppano. Cambierà la natura stessa del lavoro, diventando sempre più flessibile. Incideranno anche il rafforzamento delle classi medie nei mercati emergenti (con Cina e India in testa), i cambiamenti climatici e lo sfruttamento delle risorse naturali, l'instabilità geopolitica. Ma cambieranno anche i consumatori, sempre più attenti a sostenibilità e privacy. La longevità (vedi alla voce pensioni) sarà un fattore determinante, così come l'emergere del fattore "d": le donne saranno una forza demografica e lavorativa. A patto di volerlo.
Sarà un
mondo del lavoro a due velocità. Le nuove opportunità lavorative arriveranno da architettura, ingegneria, matematica e informatica. Mentre pagheranno il settore amministrativo (nel quale si concentrano i due terzi dei posti persi) e il manifatturiero, "soprattutto a causa di tecnologie come le stampanti 3D".
Prima di riscoprire il luddismo del terzo millennio, però, sarebbe meglio leggere il commento di Klaus Schwab, fondatore del Wef, che accompagna il report: "Senza azioni urgenti e indirizzate per gestire questa transizione e costruire una forza lavoro capace di affrontare le nuove competenze, i governi dovranno affrontare disoccupazione, diseguaglianza e riduzione dei consumi senza precedenti". Non si tratta di un orizzonte lontano: tutto avverrà da qui al 2020, nell'arco di quattro anni.
Che cosa serve all'ItaliaL'Italia non fa eccezione: l'outlook sull'occupazione dei prossimi anni è negativo. A risentirne saranno soprattutto il settore commerciale, quello amministrativo e il manifatturiero. Ma anche pesca, allevamento e agricoltura. Cresceranno invece la logistica, i servizi legali e finanziari. E i posti di lavoro legati all'informatica e all'ingegneria.
Il cambiamento è più lento del necessario. L'incapacità di capirne la portata è solo una delle spiegazioni. E, almeno in Italia, non la principale. Il report ha infatti chiesto alle imprese quali siano le barriere che impediscono un cambio di passo. E qui emergono le prime differenze tra i Paesi esaminati. In Gran Bretagna e Germania, a guidare la classifica sono "la mancata comprensione del cambiamento" e la "penuria di risorse" a disposizione. I francesi puntano il dito contro la distanza tra le competenze della forza lavoro attuale e quelle richieste dall'innovazione. E l'Italia? La "scarsa comprensione" è terza. La crisi solo seconda. Primeggia invece la miopia, che il report chiama "pressione degli azionisti e obiettivi di breve termine".
Lo dice anche il World economic forum: se i governi (ancor prima delle imprese) non si muovono, si va incontro a un quadro "senza precedenti" (in negativo). Quali sarebbero allora i passi da fare? Anche questa domanda è stata rivolta agli specialisti italiani del settore. Che puntano su riqualificazione dei lavoratori, un rapporto più stretto tra scuola e imprese, mobilità, capacità di attrarre talenti e (in fondo alla classifica) valorizzazione del talento femminile. Un elenco che fa emergere lo scollamento tra la realtà e quello che servirebbe.
Se la formazione (digitale) è solo un dettaglioNella lista dei desideri primeggiano gli "investimenti per la riqualificazione dei dipendenti attuali". In primis verso le competenze digitali. Eppure la riqualificazione è spesso demandata agli stati di crisi, come medicina e non come vaccino.
Non funziona neppure la formazione. I centri per l'impiego restano inefficienti e le ore di formazione all'interno delle aziende sono pochissime. L'Osservatorio delle Competenze Digitali ha sottolineato il ritardo nella transizione, anche a causa di una formazione povera, ridotta a dettaglio: le giornate di formazione
sono in media 6,2 all'anno nelle aziende Ict, 4 nella pubblica amministrazione e 3 nelle aziende utenti.
La catena scuola-lavoro non funzionaL'Osservatorio mette in luce anche un'altra crepa (anch'essa indicata dal Wef tra i fattori di cambiamento): la "collaborazione con scuole e università". C'è ancora "un gap di competenze" tra domanda delle imprese e offerta di competenze. In altre parole: le aziende hanno fame di lavoratori (ingegneri e informatici su tutti) che nessuno produce. "Scuola e università – si legge nel report – dovranno rivedere e adeguare la propria offerta formativa ad un mercato del lavoro che necessita sempre più di professionalità digitali".
Il 60 per cento delle aziende dichiara di avere rapporti continuativi con il mondo accademico. Ma poche partecipano ai comitati di indirizzo dei corsi di studio. Ancora più malmesso è il canale tra imprese e istituti tecnici: solo un'azienda su quattro è legata alle scuole. Nel complesso è "basso" il livello di conoscenza dell’offerta di formazione specialistica da parte delle imprese.
E se si allarga lo sguardo anche ai licei, il quadro peggiora: solo il 9 per cento degli studenti delle scuole superiori è stato coinvolto nell'alternanza scuola-lavoro. È l'ultima scommessa di Matteo Renzi e della sua Buona Scuola: stimolare l'osmosi con 200 ore di formazioni negli ultimi 3 anni di liceo e 400 negli istituti tecnici e professionali. Ma non si conoscono ancora il destino dei 100 milioni di finanziamenti stanziati, la sorte della Carta dei diritti e dei doveri degli studenti e il destino del Registro nazionale dell'alternanza (che dovrebbe includere le imprese disposte a collaborare con le scuole).
Italia bella ma non attraenteNella rivoluzione industriale 4.0, "la capacità di attrarre talenti esteri" è indicato come altro fattore di sviluppo. Peccato che
l'Italia sia lontana dalla top ten dei Paesi capaci di farlo (Svizzera, Singapore, Lussemburgo, Usa, Danimarca, Svezia, UK, Norvegia, Canada e Finlandia). L'Italia è 41esima, la peggiore tra le grandi economie mondiali. Non è solo una questione di salute economica (posizione 32) né di mercato del lavoro (91esima). L'Italia non è attraente anche perché "poco aperta verso l'estero: in questa voce è in 97esima piazza. "La mobilità è diventata un fattore chiave delle sviluppo", affermano gli autori dello studio Bruno Lanvin e Paul Evans. "Il talento non può essere sfruttato appieno se la mobilità internazionale e la 'circolazione dei cervelli' non viene incoraggiata".
Tra mobilità e posto fisso Mobilità. Non solo dei cervelli. Per evitare che la quarta rivoluzione industriale incida sull'occupazione, occorre anche "flessibilità". O, per essere più precisi "supporto alla mobilità e rotazione dei posti di lavoro". Addio al posto fisso. Che però non significa disoccupazione ma un sostegno alle altre forme contrattuali e alle politiche attive. Lo statuto delle partite Iva, in attesa dei dettagli che arriveranno con la sua approvazione, dovrebbe estendere alcune garanzie ai lavoratori autonomi, visti finalmente come un categoria degna e non solo come una distorsione da correggere.
Le grandi assenti sono le politiche attive sul lavoro. Per i nuovi assunti, i vecchi contratti sono già un ricordo. Ma per chi è senza lavoro, l'efficienza dei centri per l'impiego è ancora un miraggio. E solo dal primo gennaio si è messa in moto l’Anpal, l'Agenzia nazionale che il Jobs Act ha previsto come centro direzionale delle politiche attive. Nel frattempo, però,
si è creato un vuoto tra il posto fisso e il sostegno alla mobilità ancora da colmare.
Le donne e il talento dimenticatoIl Wef dedica un intero capitolo del report alle donne. "Un'impresa su quattro indica la valorizzazione del talento femminile come un fattore chiave" per il il lavoro del futuro. E il 53 per cento degli intervistati indica "la promozione della partecipazione femminile" come "una priorità".
In Italia, invece, il fattore "d" è relegato in fondo alla classifica. Ottavo motore di sviluppo su otto categorie. Guardando ai nostri vicini, per i tedeschi è al quinto posto. Per i francesi al terzo (al pari di mobilità e formazione). E sarà decisivo per un britannico su tre. Solo il 13 per cento degli intervistati italiani, invece, lo definisce strategicamente importante. E se questa è la premessa, nei prossimi anni quello femminile continuerà a essere talento sprecato.