Il discusso lavoro d'esordio del trentottenne László Nemes è stato definito "L'anti Schindler's List"
“Il figlio di Saul” è arrivato nelle sale italiane accompagnato da un dibattito che dura da mesi. Già a maggio scorso, al Festival di Cannes, il film d’esordio del trentottenne László Nemes era apparso la vera novità del concorso. Non solo per il tema, ma per la radicale scelta estetica del regista. ?Il protagonista, Saul, è un componente del Sonderkommando di Auschwitz, ossia uno dei prigionieri, periodicamente uccisi e sostituiti, che aiutavano gli aguzzini nella gestione dello sterminio: accompagnare nelle camere a gas, pulire, bruciare i corpi. Ma un giorno Saul vede un bambino sopravvissuto ?al gas e finito da un medico, e decide ?di dargli degna sepoltura, secondo ?il cerimoniale del Kaddish.
Il protagonista, interpretato dal poeta Géza Röhrig, dal volto indecifrabile, ?è sempre al centro dell’inquadratura, spesso in primo piano, e il mondo intorno a lui si vede solo sullo sfondo, sfocato. Intuiamo appena le camere ?a gas, i roghi di cadaveri, l’insurrezione dei prigionieri alla fine.
In Francia, quando il film è uscito ?in sala, a novembre, il dibattito ha visto il contributo di una temutissima autorità. ?Il documentarista novantenne Claude Lanzmann, autore di “Shoah”, monumentale raccolta di interviste ai sopravvissuti, ha da sempre posizioni radicali sul tema. Nessuna immagine, intima da sempre: solo dar voce ai testimoni. Qualunque rimessa in scena sarebbe un sacrilegio. «Non ti farai nessuna immagine della Shoah», insomma. Ma stavolta perfino lui ?si è lasciato convincere dal complesso dispositivo inventato da Nemes: ?«È l’anti “Schindler’s List”», ?ha dichiarato, che detto da lui ?è il massimo dei complimenti.
In molti hanno esaltato la novità ?del film, e “Le Monde” gli ha dedicato una mezza dozzina di articoli. ?Ma ci sono stati anche dei distinguo: ?i “Cahiers du cinéma” e “Libération” ?ne hanno criticato la strategia “immersiva” ed emozionale.
Del resto, in Francia il dibattito sull’etica del cinema davanti alla Shoah ha una lunga storia: nel 1961 Jacques Rivette definiva senza mezzi termini “abietto” “Kapò” di Pontecorvo, per un carrello che estetizzava la morte di una donna sul filo spinato.
L’endorsement più solido di “Il figlio ?di Saul” è venuto dal filosofo e storico dell’arte Georges Didi-Huberman, ?il quale ha pubblicato una lunga lettera aperta al regista, intitolata “Sortir du noir” (Les éditions de Minuit, 6 euro, 55 pp.) Si tratta di una analisi esemplare, che scandaglia i minimi aspetti visivi ?e narrativi. Un esempio del classico genere dell’apologetica, sostenuto da grande tensione letteraria e morale. ?Il “nero” del titolo è il buco nero della storia costituito da Auschwitz, ma ?anche l’assenza di immagini come ideale dell’arte dopo il lager, secondo ?la visione di filosofi come Theodor Adorno. Invece, dice Didi-Huberman, ?“Il figlio di Saul” fa «uscire dal nero», ?da questa maledizione per cui l’orrore non si può / non si deve ricostruire. Permette di dire che le immagini sono possibili malgrado tutto.
Nel film il filosofo ha trovato conferma ?a una battaglia teorica che compie ?da anni. In un libro intitolato appunto “Immagini malgrado tutto”, partendo dalle poche fotografie scattate di nascosto proprio da alcuni componenti del Sonderkommando, contrapponeva alle posizioni di Lanzmann l’esigenza di un faticoso lavoro per rendere pensabile l’impensabile, mostrabile l’immostrabile. Per non darla vinta ex post, in definitiva, ai nazisti, che prima di fuggire cercavano di far sparire le immagini dei campi.
Un mese fa, “Il figlio di Saul” è uscito negli Stati Uniti, dove ha raccolto grandi lodi, non esenti da qualche rispettoso dubbio.
Un tweet di Joyce Carol Oates lo definisce «un film che non tratta semplicemente un tema, ma ingloba (embed) lo spettatore in un’esperienza». Un complimento che può essere rovesciato in critica: il “New York Times” infatti, pur apprezzandolo, nota che il film offre più sensazione che profondità, una esperienza emotiva che si situa troppo comodamente all’interno delle regole spettacolari. Ciò non è solo colpa del regista: l’Olocausto, un tempo territorio proibito, oggi è un terreno sicuro e familiare. Parole inquietanti, su cui riflettere.