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È un fenomeno di una diffusione scioccante, un dramma con il quale milioni di ragazze e di donne americane devono fare i conti per anni, un trauma che spesso si portano addosso a vita. La violenza sessuale si manifesta a livelli epidemici in luoghi che dovrebbero essere dei santuari di civiltà e di tolleranza: nei college americani, dove anche quest’anno una donna su quattro verrà stuprata o sottoposta a qualche forma di abuso fisico, con tutte le conseguenze di rabbia, impotenza, frustrazione, sensi di colpa e altre forti emozioni quasi sempre soffocate nel silenzio.

È accaduto anche a Stefani Joanne Angelina Germanotta. Aveva 19 anni, era una ragazza newyorchese di famiglia italo-americana e molto cattolica che studiava arte e recitazione e che in quei giorni stava cercando di mettere in piedi una band. Adesso ne ha dieci in più, e mentre in casa resta Steffie, tutto il mondo la conosce con lo pseudonimo di Lady Gaga. Una superdiva diventata famosa con canzoni electro-pop alquanto convenzionali come “Poker Face” e “Bad Romance”.

Eppure sin da quando è emersa nel 2008 con l’album “The Fame” Lady Gaga ha subito saputo crearsi una nicchia diversa da quella delle Britney Spears, delle Christina Aguilera e delle Jessica Simpson, con i loro corsetti e le tute di pelle sempre uguali e tutte con ben poco da dire. Lei è pirotecnica e spettacolare, ma il suo riferimento culturale più che Madonna è stato Andy Warhol.

Lady Gaga è ambigua e inscrutabile, parla e si veste come una che viene da un altro pianeta. E se come primo impatto sembrano superficiali, le sue canzoni lasciano trapelare il dolore e la vulnerabilità di un’anima tormentata. L’anima di una donna che a 19 anni  è stata vittima di violenza sessuale e che solo di recente ha deciso di raccontarlo e di denunciarlo al mondo intero. Lo ha fatto offrendo la sua voce empatica a “Til It Happens To You” in “The Hunting Ground”, un documentario firmato da Catherine Hardwicke dove il territorio di caccia sono appunto i campus americani.
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Più che una canzone, “Finché non capita a te” è un potente grido di rabbia, un manifesto che Lady Gaga oggi potrebbe rifiutare di discutere  per concentrarsi sul suo nuovo corso di artista rispettabile e rispettata. Potrebbe parlare di quando ha lasciato a bocca aperta Julie Andrews e il mondo intero cantando agli Oscar “The Sound of Music”. O della sua trionfale tournée tra Europa e Americhe con Tony Bennett, 88 anni. E poi ora lei è un’attrice, la protagonista della fortunata serie antologica “American Horror Story: Hotel”, dove è la Contessa che gestisce un albergo Art Deco popolato di bizzarri vampiri, di serial killer, di paurosi labirinti , di camere di soffocamento e anche di scivoli per scaricare i cadaveri.
Lady Gaga potrebbe insomma parlare della sua carriera arrivata a una svolta importante, ma in questa sua intervista esclusiva con “l’Espresso” non ha avuto esitazione a riflettere su un altro momento chiave della sua vita: sul giorno in cui il suo corpo è stato dissacrato e violentato, e sugli effetti che quel dramma ha avuto sulla sua vita.

Se oggi ripensa a quel giorno, quanto l’ha colpita? E come l’ha cambiata?
«È un evento che mi ha distrutto la giovinezza e dal quale non mi sono mai del tutto ripresa perché ha come definito la fine di un’età bellissima. Quando ti violentano c’è un qualcosa che si impossessa di te, che ti prende il corpo, che ti prende a livello mentale ed emotivo. È come se tu non ci fossi più, a volte ti senti anche in colpa per questo. O ti viene da mandare tutti al diavolo perché non sanno che cosa significa non poter uscire ed essere semplicemente di nuovo normali. Io poi mi sentivo già prima una persona molto isolata. No, non perché ero sola o perché abbandonata dalla famiglia, anzi. Penso sia una questione di chimica, ci sono bambini che nascono così e dopo un po’ non sai nemmeno perché. Ecco, così mi sentivo io quando c’è stata la violenza sul mio corpo. E per poi parlarne apertamente ci ho impiegato dieci anni».

La musica e l’arte le sono state di aiuto?
«Per dieci anni sono stata un’artista ferita e la musica è stato un modo per uscirne e per accettarmi. È stata curativa,  catartica. Con la musica il mio dolore mi ha dato potere, mi ha reso immortale. Rifiuto di accettare che la gente non vuole cose intelligenti da me, che se sono una che fa pop allora non posso avere sostanza. Lo rifiuto perché ora mi sento di nuovo intatta e penso sia stato importante parlarne: va bene provare dolore e provare paura ma dobbiamo parlarne apertamente. Penso di avere raggiunto un punto di svolta perché come donna ho accettato che non sono perfetta e ho accettato che non sono la più bella ma che comunque conto lo stesso. Voglio poter essere forte nella mia debolezza e nella mia vulnerabilità. Soffrire mi ha reso bella, più coraggiosa e più sensibile. Ho più sostanza e questo si riflette anche nella mia Contessa, nel mio lavoro di attrice».
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Nella contessa-vampiro, che uccide coi metodi più macabri e perversi?
«La Contessa non è stata stuprata ma è comunque una donna distrutta. Ha il cuore a pezzi e cerca di curare il suo dolore con l’immortalità, che è un qualcosa che ottieni anche con la fama. E sì, ho usato me stessa e la mia esperienza come punto di riferimento. Non è crudele, la Contessa. Vuole sopravvivere. E il pubblico le crede perché sa che quando dico che sono una che ha visto il terrore negli occhi sono credibile, perché sa che l’ho vissuto per davvero e che non ne ho fatto un handicap ma anzi qualcosa che mi rende unica. La sua vulnerabilità ha finito per renderla più forte: se la Contessa si sente di piangere o di essere triste lo può fare perché ha visto tutto, perché se la giudichi dal suo aspetto avrà 25 anni per sempre ma  dentro ha la saggezza di una donna di cento anni. Ciò che la rende potente sono la sua saggezza e la sua intelligenza».

Insomma, Lady Gaga: dobbiamo considerarla prima una cantante o un’attrice?
«Ho sempre voluto essere un’attrice: e non importa se non ho scritto io la sceneggiatura, e non ho il controllo di quello che faccio. In realtà io non ho mai cercato di avere il controllo dell’arte, ho sempre voluto invece che l’arte avesse il controllo su di me. Ed è per questo che amo recitare, perché non devo stare a decidere che cosa va e che cosa non va e posso lasciarmi andare».

Si lascerà andare anche sul vestiario o terrà ancora sotto controllo ogni dettaglio e ogni immagine?
«La moda resta una parte cruciale nella mia esistenza, è un’espressione di quello che sento e anche un rituale per quietare i miei demoni. Sono felice così come sono, non devo essere come gli altri. Voglio ispirare ma prima di tutto voglio essere chi sono e voglio divertirmi nel farlo. Sono cresciuta sentendo molta solitudine e molta depressione, che nella mia famiglia è una questione ereditaria e di cui non si parla. Siamo molto uniti, ma da noi terapie e benessere mentale non esistono: è la vita. La musica mi ha dato la libertà. L’arte mi ha dato la libertà e ho dunque sempre  voluto aiutare quelli che si sentono isolati e fargli capire che usando la loro immaginazione e la loro creatività possono diventare quello che vogliono. Vorrei aggiungere che di fronte a cinque o a 50mila persone, non ho mai fatto niente che non contenesse un messaggio potente per i più giovani. A volte era velato, a volte era satirico ma ho sempre cercato di aiutare quelli che si sentono soli e diversi».

E lo ha fatto compiendo molte giravolte artistiche ed estetiche. I suoi fan continuano a seguirla?
«C’è una relazione burrascosa tra me e i miei fan. In gran parte sono molto legati. Apprezzano le mie aperture e sanno che quando faccio musica do tutto di me e lo faccio come se avessi davanti un solo giorno di vita. La musica mi ha dato un posto dove incanalare tutto il dolore e tutta l’angoscia che non sapevo nemmeno di avere e attraverso cui scoprire milioni di cose che non conoscevo di me stessa. Puoi fare tanto con la musica e i fan mi sono grati, ma molti non vogliono questo da me. Vogliono la ragazza bizzarra con i costumi folli. Vogliono una ragazza dolce e deliziosa che balla e che se proprio deve offrire il lato oscuro della vita lo impacchetta con tanti colori. Vogliono vedere la perfezione, ma io a questo punto sono pronta a mostrare l’imperfezione. Anche quando poso per giornali non voglio che usino Photoshop, voglio immagini che rappresentano me stessa. Il mio corpo è diventato finalmente mio: e questo è un concetto molto liberatorio».