La magistrata Paola Di Nicola Travaglini a L'Espresso: «Leggi che mancano e formazione professionale assente. Nei tribunali la dignità di chi ha subito violenza continua a essere gravemente calpestata»

Come un fiume carsico riemerge la questione dei femminicidi. Ribolle nelle cronache, illumina al neon la conoscenza che abbiamo del fenomeno di violenza di genere. L’Italia ha conosciuto cosa fosse un processo per stupro nel 1979, quando la Rete 2 entrò per la prima volta nell'aula di un tribunale. Un documento che svelò quali fossero le dinamiche di questo reato e i pregiudizi sul corpo della donna (l’avvocato degli imputati disse: «Se questa ragazza fosse stata a casa non si sarebbe verificato niente»). Lo stupro era ancora considerato un reato contro la morale pubblica. Solo nel 1996 la legge lo rese "reato contro la persona". Cosa è cambiato in questo tempo fatto di denunce anonime e nuove consapevolezze che bruciano sull’ondata del #MeToo, il fenomeno che ha scosso il mondo – ma non l’Italia- rivelando molestie e abusi sessuali contro le donne? Cosa abbiamo saputo decifrare, e imparare, dal tempo che abbiamo appena trascorso? Poco. Lo spiega a L’Espresso Paola Di Nicola Travaglini, ex consulente giuridico della commissione sul femminicidio e la violenza di genere del Senato e oggi in ruolo come consigliera di Cassazione: “La vittima è sempre carnefice”.


Dottoressa Di Nicola, facciamo chiarezza sulla questione della violenza di genere in Italia. Partiamo dal nervo scoperto del #MeToo: le denunce. Quanto tempo ha una vittima in Italia per denunciare una violenza?
«Per le violenze sessuali il termine, grazie al Codice Rosso (legge del 2019), è aumentato a un anno, prima era a 6 mesi. Per i maltrattamenti consumati in un contesto familiare non c’è un termine perché è un reato procedibile d’ufficio. Per lo stalking 6 mesi. I termini sono differenti a seconda del tipo di reato»

Un anno soltanto è abbastanza?
«È poco. Serve del tempo per maturare una consapevolezza. Spesso, questo reato, viene commesso da parte di persone conosciute: parenti, genitori, amici, compagni di scuola. Il tempo pesa differentemente a seconda della persona che subisce la violenza: dalla sua condizione sociale ed economica. E consideriamo che il contesto sociale, culturale e professionale non solidarizza quasi mai con le vittime ma con il carnefice, ritenendo che quella denuncia abbia sempre una natura strumentale»

Quale potrebbe essere la soluzione?
«È una questione complessa su cui c’è un grande dibattito in Italia e nel mondo. In Italia, dal punto di vista strettamente giuridico, la violenza sessuale è perseguita a querela (quindi su richiesta espressa della vittima). Poiché include il racconto della propria intimità e di una sfera come quella della sessualità così delicata, è necessaria la volontà espressa della vittima a denunciare. La donna si troverà ad affrontare quella che la Corte per i Diritti Umani ha definito “un calvario”, cioè il processo penale. Se io decido di denunciare devo essere determinata. Devo sapere che affronterò sfere di avvocati, giudici, persone che potrebbero non credermi e che mi metteranno sotto pressione».

Tuttavia terminato l'anno in cui la vittima può denunciare ci si trova davanti a un muro. Non sarebbe il caso di rendere questo un reato d’ufficio e non nella disponibilità della vittima?
«I reati procedibili di ufficio sono quelli che lo Stato ritiene talmente gravi da non lasciarli nella disponibilità della vittima, ad esempio: truffa, appropriazione indebita. Reati considerati meno gravi. Questo della violenza di genere è di grandissima gravità per lo Stato eppure lo Stato stesso rinuncia a perseguire d’ufficio. Ma lo fa perché rispetta questa difficoltà della vittima e la riconosce. Però, certo, è uno spazio troppo breve. Una soluzione potrebbe essere quella di aumentare in maniera significativa il lasso di tempo della denuncia, mettere la vittima in condizione di valutare e decidere consapevolmente se percorrere questa strada».

Lei ha nominato la paura. Quello della vittima nelle aule di giustizia ci rimanda un po’ ai tempi di Processo per Stupro. Il "calvario" consiste anche nel subire una serie di osservazioni totalmente irrilevanti: gli abiti che indossava, l'alcol che aveva ingerito.
«Sotto il profilo giuridico abbiamo tutti gli strumenti per contrastare il fenomeno della violenza, mettendo a vertice la dignità della persona offesa. Dal punto di vista concreto e culturale, invece, la dignità della vittima continua a essere gravemente calpestata da un atteggiamento che, dietro a un presunto diritto di difesa, ferisce con domande superflue, irrilevanti, inutili, non idonee ad accertare il fatto ma finalizzate esclusivamente a colpevolizzare la vittima. La donna diventa vittima con dolo, carnefice»

Un problema più culturale che giuridico. Si può risolvere con dei corsi di formazione?
«Direi: formazione obbligatoria per tutti coloro che entrano in contatto nelle istituzioni con le vittime di violenza di genere. Però deve essere una formazione non tecnica ma soprattutto culturale. Deve disvelare gli stereotipi e i pregiudizi che abbiamo nei confronti delle donne, viste come bugiarde che denunciano strumentalmente o che esagerano, messe volontariamente nella condizione di essere stuprate, picchiate, malmenate, perseguitate. Questi sono i pregiudizi che abitano le aule di giustizia, i commissariati, le stazioni carabinieri e gli studi professionali dell’avvocatura. E non dimentichiamo quelli nei confronti degli uomini: mossi dagli impulsi incontrollabili, raptus, gelosia. Sono pregiudizi che quando vengono rappresentati mostrano la totale incompetenza di chi li esprime».

Si legge nel codice penale: “Chiunque con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità costringe taluno a compiere o subire atti sessuali, è punito con la reclusione da sei a dodici anni”. La fattispecie non contempla attenuanti specifiche, sociali o di contesto: il giudice deve valutare se il rapporto sessuale sia il risultato di violenza, minaccia o abuso di autorità. Non è sempre facile: ci sono i casi di violenza chiara con referti medici che la certificano, ma anche quelli in cui la versione dell’imputato e vittima divergono sul fatto che il rapporto fosse consensuale o meno.
«Il nostro codice è costruito come lei ha indicato. Ma l’interpretazione della Corte di Cassazione è andata molto più avanti per cui per una violenza sessuale è sufficiente che l’atto sessuale non sia sorretto dal consenso della persona offesa. Qualsiasi atto sessuale commesso senza consenso, oggi è una violenza sessuale. Sebbene non ci sia nel codice penale la parola “consenso”. Questa è un’interpretazione a cui siamo arrivati nella Corte Di Cassazione sulla base della lettura delle convenzioni internazionali. Dobbiamo interpretare le norme del Codice Penale anche alla luce dell’evoluzione interpretativa e del fenomeno per come si esprime e si presenta. Devo dire che tutto questo vale molto in astratto. Nonostante l’interpretazione della Corte di Cassazione si continuano a leggere sentenze di primo grado o di appello che danno un’interpretazione differente e lontana».

Bisogna rimettere mano al Codice Penale?
«Sì. L’ex presidente della commissione femminicidio Valeria Valente, (senatrice del PD n.d.r) ha presentato un disegno di legge in cui viene riscritta la norma sulla violenza sessuale proprio in questi termini».

E invece in Italia il reato di molestie non esiste.
«Attualmente non è punito. Le molestie sessuali quando non sono violenza sessuale sono punite con una contravvenzione (L'art. 660 del Codice Penale n.d.r). Si riduce tutto a semplici molestie, pensiamo alle dieci telefonate del vicino di casa. Ma non abbiamo un reato sulle molestie sessuali, ad esempio: ricevere la fotografia su whatsapp dell’organo sessuale di una persona più volte o telefonate oltraggiose. Non si considera che anche se non c’è la violenza sessuale dietro queste molestie, resiste una forma grave di intimidazione e preoccupazione oltre che di lesione della dignità».

Tornando al fattore tempo, le aule di giustizia sono sempre più lente su questi reati
«Intanto il Codice Rosso prevede 3 giorni entro i quali la persona che ha denunciato deve essere sentita e deve partire l’attività di indagine. Quindi i tempi dell’indagine sono velocissimi. Il punto di caduta è nel giudicante. Il Pm fa indagini veloci, così come polizia e carabinieri ma quando si arriva davanti al giudice, lì si crea un blocco, cioè noi giudicanti non abbiamo dei termini perentori. Mentre il Pm deve dare priorità assoluta a questi reati. Al giudice non è posto nessun termine. Poiché è colui che deve avviare atti importanti come gli arresti domiciliari, senza obbligatorietà tutto diventa più complesso. Questo è qualcosa che richiederebbe un nuovo tempestivo intervento del legislatore. Bisogna accorciare i tempi»

Ritiene soddisfacente l'attenzione che dello Stato sui centri anti-violenza?
«Appena sufficiente. Sono stati aumentati i fondi, certamente, ma l’investimento dovrebbe richiedere un intervento radicale e importante. I centri di anti-violenza sono l’unico presidio reale di sostegno e di tutela nei confronti delle vittime. Spesso quando i carabinieri o la polizia invitano le donne ad andare nei centri, questi sono pieni, lontani, in difficoltà economica. Hanno dei fondi che vengono ripartiti prima nelle Regioni, successivamente le Regioni devono darli ai comuni che a loro volta li ripartiscono nei centri. Questa è una modalità di finanziamento ancora limitata, a gocce, ritardata rispetto a esigenze di immediatezza. C’è bisogno di un investimento importante sui centri anti-violenza ma anche sull’adeguatezza di tutti i centri. Sa, non tutti rispettano dei requisiti minimi che devono avere a fronte di una delle più difficili realtà culturali e criminali che si ritrovano ad affrontare quotidianamente».

Il principio del #MeToo è "bisogna credere a tutte le donne che denunciano". Chi critica questo fenomeno, sostiene che credere a prescindere equivale a utilizzare un principio di colpevolezza verso gli accusati. Si sacrifica la presunzione di innocenza, che ne pensa?
«Partiamo da un dato: le donne non denunciano in Italia e nel mondo. Una donna su tre è vittima di violenza e quindi un uomo su tre è autore di violenza. E se denunciassero tutte le donne vittime di violenza la macchina giudiziaria e le carceri non sarebbero in grado di sostenere l’impatto. In Italia dieci milioni di donne potrebbero denunciare. Il sistema crollerebbe. Abbiamo un fenomeno criminale, non perseguito perché non denunciato. La commissione femminicidio ha accertato che le donne che sono state uccise hanno denunciato solo nel 15 per cento dei casi. Quindi l’altro 85 per cento non aveva mai denunciato. E diciamo anche che i dati sono sottodimensionati. Fatta questa premessa, mi fa sorridere che si possa dire che quando una donna denuncia, c'è un uomo che subisce una falsa denuncia. E non dico che non sia possibile una denuncia fasulla. Il tema delle false denunce esiste, tanto che c’è un reato che si chiama calunnia e che punisce chi denuncia falsamente una persona sapendola innocente. Ma i dati che abbiamo a disposizione ci dicono che sulla violenza di genere siamo di fronte a un falso problema».

Perché l’ondata del #MeToo non ha mai investito realmente l’Italia?
«Perché è talmente radicata l’idea che le donne mentono che di fronte a un uomo il contesto sociale, culturale e professionale non difende la vittima ma tutela l’uomo denunciato. C'è una cappa di omertà che soffoca il fenomeno».

Le cronache dei femminicidi ci dicono che moltissime cose potevano essere fatte prima di arrivare al finale tragico.
«Colpa del ridimensionamento da parte dell'intero contesto della violenza. Siccome la violenza si consuma in uno spazio affettivo, viene considerata quasi sempre un conflitto di coppia. Eppure vediamo tutti i segnali. Il primo segnale della violenza – che può sfociare in un femminicidio - è la paura della vittima e la sottovalutazione. Chi è vittima di violenza viene manipolata, ridimensionata. Quando una donna ha paura lancia segnali alle amiche, ai genitori, ai colleghi di lavoro,ai ristoratori se si trova dentro un ristorante. In quel momento, chi le sta intorno deve immediatamente intervenire per sostenerla, preoccupandosi. Abbiamo interiorizzato questa idea che una violenza di coppia sia naturale, normale e appartenga a una relazione privata. Il modo di dire "tra moglie e marito non mettere il dito" racconta bene il nostro Paese. Si mantiene ancora oggi fermo un assetto discriminatorio e di potere di un uomo nei confronti di una donna».