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Cultura
ottobre, 2016

Contarello: "Questo caos è un bel film"

Basta con le storie realistiche, ordinate, classiche. Il disordine dei nostri giorni  richiede visionarietà, digressioni, effetti speciali. Lo sceneggiatore di Paolo Sorrentino, che ha scritto con lui 'La grande bellezza' e 'The Young Pope', racconta l’evoluzione del suo mestiere

Cosa è successo a Umberto Contarello, 58 anni, padovano, sceneggiatore di un film da Oscar come “La grande bellezza” e ora cosceneggiatore dello “Young Pope” di Paolo Sorrentino, se arriva a proclamare: «Il vedere è oggi molto più importante del dire. Il dire ha perso la sua spinta propulsiva»?

Proprio lui, che ha fatto della parola la cifra di una traiettoria professionale arrivata fino a Hollywood, mette in crisi l’essenza di ciò che è stato, spiega la necessità di una svolta profonda in questa lunga riflessione con “l’Espresso”. Che è anche un’analisi, a tratti spietata, degli ultimi 30 anni di cinema italiano, da quando cominciò con “Marrakech Express” di Gabriele Salvatores. E parte da un assunto lapidario: «La verità, il reale, mi hanno stancato. Questo è il tempo dell’immaginario e della fantasia». Ci arriveremo, seguendo un filo logico che affonda le radici nei suoi esordi, fino a rinnegarli. O quasi.
Umberto Contarello. Foto di Ilaria Magliocchetti Lombi

Contarello, erano gli anni ’80 quando firmò i primi copioni e alla sua generazione, lei sostiene, era stata affidata una missione “anziana”. Che significa?
«Potrei anche definirla missione conservatrice, o neoclassica. I nostri fratelli maggiori, i Bellocchio, gli Amelio, dopo aver prodotto un florilegio di capolavori, vivevano un leggero appannamento e facevano un cinema molto retroflesso e un po’ “psichico”. Su un altro versante c’era un cinema commerciale molto peggiore di quello che si fa adesso. Si era smarrita l’idea, neoclassica appunto, della narrazione. E cioè che si potessero produrre film con al centro una storia ben scritta, ben recitata, ben girata, con un ritorno della qualità della presa diretta».
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La base essenziale, no?
«Io come molti altri ho vissuto cercando di stabilire la giusta distanza tra realtà e invenzione, di trovare di volta in volta il giusto equilibrio. Era una sorta di meraviglioso passatempo pagato in cui dovevo imbrigliare pezzi di realtà tra loro dispersi in una narrazione rotonda, classica, che si rifacesse a certe suggestioni che arrivavano dall’America».

Banalizzando, era in mezzo al guado tra cinema civile e d’evasione.
«Non proprio. Nel nostro ideale Pantheon gli autori chiave erano Comencini, Germi, Pietrangeli. Tutti avevano una duplice caratteristica che, anche inconsapevolmente, cercavamo. Il sentimento civile era nascosto dentro la storia e il tono stava in equilibrio tra il malinconico e il sorridente. Non c’erano vittime, la comicità non era mai costruita a danno di qualcuno. Non erano autori cinici».

Era indulgente benevolenza propria della qualità-vizio degli “italiani brava gente”.
«Sì, una sorta di affettuosa goliardia. La goliardia ha aspetti anche spaventosi ma se mitigata da una forza contrapposta che è il calore raggiunge un tono accettabile».

Un passo indietro. Quando si era perduto il senso della narrazione?
«Alla fine degli anni ’70. C’era stata una strana alleanza tra due fronti opposti ma con lo stesso non voluto obiettivo. Un cinema popolare in quella fase orrendo e un cinema con al centro la figura dell’autore che viveva il suo periodo più involutivo. Entrambe hanno congiurato per uccidere la classicità del cinema. Dunque io sono nato professionalmente come un orfano che si deve occupare della casa, restaurare le buone maniere. E ho trascorso molto tempo nel culto della bella storia come elemento primario».

Fino a quando, par di capire, tutto questo l’ha stancata.
«A un certo punto ho cominciato a sentire la maniera di me stesso. La freschezza iniziale nel definire un racconto da cosa inedita è diventata usurata. Si sono involontariamente sedimentati degli automatismi, addirittura dei trucchi o delle abitudini professionali. Non era più un’avventura incognita: mi trovavo troppo a casa mia nella pratica quotidiana di costruire l’idea di una storia».

Una sensazione solo sua?
«No. Anche autori con sensibilità diverse hanno avvertito una sorta di asfissia del racconto. Il racconto inteso come un organismo sano e sensato non è più stato percepito come il cuore sufficiente a reggere l’impatto tra un film e il mondo esterno che si era fatto nel frattempo sempre più disordinato. Finché c’era la sensazione di un ordine nel mondo esterno, reggeva l’idea di una storia dove c’è un perfetto rapporto causa-effetto, dove i sentimenti sono dicibili e trasfigurabili in fatti e narrazione. Il racconto era come un tuorlo che stava compatto nel suo guscio e ne era protetto. Col disordine, ho cominciato a vedere film di registi che esplodevano, non più trattenuti dal guscio, e tendevano ad esondare. Il segnale visibile erano i tempi dei film che diventavano sempre più lunghi».

Qualche esempio.
«“Casinò” di Scorsese. Dopo averlo visto sono uscito con la sensazione che aveva un materiale romanzesco. Il film non era più racconto ma, appunto, romanzo, con digressioni, fili che non si chiudono. E i personaggi erano il traino della narrazione, non viceversa. Il personaggio di Sharon Stone era come una belva in gabbia perché lei era più forte della narrazione».

Ne avete parlato tra di voi autori, registi, sceneggiatori?
«Diciamo che non ci sono stati convegni o cose simili. Dal mio punto di vista l’incontro con Paolo Sorrentino è stato decisivo. Entrambi eravamo arrivati alla stessa conclusione. Cioè che il film non è più il luogo benemerito della storia ben organizzata ma qualcosa di legato al piacere, alla bellezza, alla distonia».

Sembra l’eterno dissidio tra arte etica e “art pour l’art”.
«Più precisamente vorrei citare il Calvino delle “Lezioni americane”, dove sostiene che la vita e le opere sono lo specchio dilaniato dal desiderio di comporre il mondo e il desiderio di far assomigliare il più possibile le parole alla dispersione della realtà. Se penso al lavoro complessivo dei fratelli Coen ci intravedo il primo limpido passaggio verso il racconto di persone che hanno perso i loro senso. “Fargo” è l’epifania della creatività che evolve sotto gli occhi. Comincia con la scena di un signore che paga due delinquenti perché rapiscano sua moglie. E quelli invece di parlare di ciò che devono fare discutono sul fatto che l’uomo è arrivato in ritardo all’appuntamento. Un linguaggio dislessico, non portatore di razionalità. La fantasia ha creato un mondo che si è espanso nelle due successive serie».

Pare evidente un rischio estetizzante.
«Anche su questo ho cambiato idea. Devo ammettere che nel nostro modo di fare cinema abbiamo sempre considerato l’elemento formale, cioè la pura sensazione di piacere, cioè il piacere, come un ingrediente tendenzialmente pericoloso, moralmente disdicevole, la traccia di una forma di tradimento dell’impegno. Sbagliavamo».

Iosif Brodskij in effetti dice che l’estetica precede l’etica perché il concetto di bello precede quello di buono.
«Più umilmente sostengo che non faccio più discendere il piacere dal senso».

Non è forse la prova definitiva che l’immaginario di Hollywood ci ha colonizzato? Del resto non ha citato che film americani sinora...
«La risposta è proprio nel lavoro che fanno i Coen. Stanno profondamente dentro la storia del cinema americano, anche nei tratti mainstream, e nello stesso tempo hanno una grande libertà autoriale che è una classica caratteristica europea».

Dunque lei teorizza una sorta di crasi tra le sponde dell’Atlantico.
«Loro ne sono un riuscito esempio. Fanno deflagrare il racconto partendo dai personaggi, poi dai movimenti di trama per arrivare alla loro più limpida firma che è arte della digressività. Una sorta di bestemmia in chiesa se si usano i canoni classici perché le loro digressioni non sono elementi necessari alla progressione dinamica del racconto».

Bisognerà buttare i testi classici che codificano l’architettura del racconto, dalla Poetica di Aristotele fino a Ugo Pirro...
«Quando qualcosa di codificato si rompe noi umani diventiamo istintivamente reazionari perché temiamo il vuoto che c’è dopo. La medicina di quei codici però non mi cura più. E credo, ora, che l’insensatezza non sia una malattia ma sia il tesoro da esplorare».

Dunque l’architettura è una camicia di forza.
«Io personalmente non l’ho mai studiata. Vedo nei migliori prodotti scritti da colleghi più giovani, come la serie di “Gomorra”, che non occorre aver letto manuali per sentire la musica, l’armonia di una storia. La si riconosce, come il ritornello di una canzone. Poi ci sono le occasioni fortunate. Nel mio caso l’incontro con l’esplosiva libertà creativa di Sorrentino. Che mi ha aiutato a disimbrigliare la fantasia. Ha una capacità di immaginazione che non si vedeva da molto tempo».

L’homo videns vale più dell’homo sapiens?
«Assolutamente. Il vedere è estremamente più potente. È il territorio inesplorato e vergine. Il dire ci ha allevato ma ha perso la sua spinta propulsiva».

Insomma: in principio era il verbo, poi è venuta la cinepresa.
«I film prima nascevano da scambi di opinioni. Erano come un progetto architettonico, le fondamenta, i muri, la tinteggiatura eccetera. Trovo obbrobriosa l’idea che un film nasce se lo si ha chiaro prima in testa. È un abominio della creatività. Per quanto mi riguarda penso ci debba essere un’idea originaria e passo passo si vede dove porta senza averlo prefigurato prima. Altrimenti il film arriva stremato alla meta, è privo di energia, è il frutto di un lavoro che l’ha dissanguato invece di irrorarlo».

E torniamo al cinema come terra incognita.
«Nel percorso fatto con Sorrentino per la serie del papa ho concretamente sperimentato come la quantità sia un elemento fondamentale della complessità e della varietà. Ci sono aree appena sfiorate e non esplorate. Avanti, facciamolo. Grazie a due novità rilevanti. La prima sono gli effetti speciali, rivoluzione fondamentale. Io oggi posso esercitare la stessa fantasia di mio figlio Tito che ha 9 anni perché ho lo strumento che mi permette di rompere la barriera con il “non si può fare”. E inoltre: sino ad ora i film erano composti da tre elementi, cosa sente il personaggio, cosa dice il personaggio, cosa fa il personaggio. Possiamo aggiungerne un quarto che occupa la maggior parte del nostro tempo mentale: cosa pensa un personaggio, il suo flusso di coscienza. Noi continuiamo a vivere scissi, pensiamo una cosa e ne facciamo un’altra».

La scissione è diabolica nella tradizione occidentale.
«E faremo cinema diabolico! La tecnologia offre la possibilità di misurarsi con un tabù, col fatto che i pensieri prima non erano rappresentabili e dunque erano preventivamente censurati. Il piacere non nasce più dall’appagamento totale della persona ma può soddisfare gli occhi e l’udito in modo scisso. Un esempio? In molti hanno visto due volte “La grande bellezza” e credo di sapere perché: una volta l’hanno visto e una seconda l’hanno sentito. Il film di cui aspetto con maggiore impazienza l’uscita oggi è quello di un regista che 25 anni fa avrei considerato come un nemico di classe: Tom Ford. Lo adoro, è di un’eleganza formale commovente. In generale mi piacciono i film che riescono a causarmi abbandono».

Contarello, lei sembra transitato dal neoclassico al romantico.
«Sono d’accordo. Il romanticismo è la pistola sparata contro la pretesa che l’esistenza e il mondo abbiano una direzione e un senso dicibile».

Quali sono di recente due film che le hanno causato abbandono?
«Uno passato quasi inosservato, “Foxcatcher” di Bennett Miller. E poi il “Lupo di Wall Street” di Scorsese. Ho avuto un abbandono che definirei da tifoso allo stadio: parteggi e lasci a casa te stesso. Quel film è l’esplosione della modernità nel suo carattere dissennato».

Non vale più la famosa frase per cui gli sceneggiatori dicevano «questa scena non la mettiamo perché non ci crede nessuno».
«Non è mai stata una frase vera. Era cretina perché si basava sull’idea che uno spettatore quando vede un film lo compara con la realtà. Invece quando qualcuno dice che un film non è credibile sta dicendo un’altra cosa. Sta dicendo: è brutto».

Lei adesso quando va a insegnare sceneggiatura non parla. Si mette in cattedra e si fa guardare mentre lavora...
«Sto scrivendo con Sara Mosetti il prossimo film di Salvatores e ho scoperto questo strumento che si chiama “Writerduet” che permette di condividere una pagina con chi ti sta davanti o dall’altro capo del mondo. Ecco, in aula invece di parlare e raccontare cose in cui non credo più nemmeno io ho preferito usare questo metodo. I ragazzi possono vedere come lavoro, mi pare sia il modo migliore per trasmettere ciò che so».

E quanto di questo suo neoromanticismo c’è nel “Young Pope”?
«Paolo è il regista con cui io ho parlato meno. Credo di essere lo sceneggiatore che conosce meglio la sua musica perché siamo in sintonia, so come canta. Entrambi non abbiamo paura della sentenziosità o della apoditticità».

Cosa c’è di più apodittico di un papa...
«Infatti l’apoditticità legittimata del papa è uno degli elementi che ci ha appassionato. Insieme a quanto di umano c’è in una persona che a volta sfiora l’ingenuità o la stupidità».

Il papa come “L’Idiota” di Dostoevskij?
«Una specie di ingenuità e svuotamento interiore molto potente. Un lavoro che farà molto discutere e sarà molto visto».

Contarello, lei 25 anni fa mi disse che il film è del regista. Sottoscriverebbe anche oggi?
«Non appartengo alla schiera degli sceneggiatori che hanno un problema autoriale. Certo il film è del regista, confermo. E aggiungo: ciò che ho imparato nello scrivere film non me l’hanno insegnato i colleghi, ma i registi con cui ho lavorato».

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