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Nel mesto tramonto di un uomo che aveva suscitato tante speranze, di lui resterà, nella casella dei segni positivi, la postura istituzionale che ha saputo assumere nei momenti in cui il terrorismo dello Stato islamico ha colpito duro, a Parigi (Charlie-Hebdo e Bataclan) come a Nizza, nella scia di un decoro repubblicano proprio di capi dello Stato che in Francia rappresentano (rappresentavano?) ancora un potere ieratico quasi paragonabile a quello dei re. Ma siamo nella terra in cui anche ai re, quando la misura è colma, si taglia la testa. E l’effimera popolarità derivata dal modo corretto con cui ha presenziato a funerali, Hollande se l’è giocata non riuscendo, via via, ad evitare altri lutti e fallendo praticamente in tutte le promesse fatte all’alba del mandato, quando sognare la luna non costa nulla.
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La crisi economica picchiava già duro da tempo, nel 2012, quando, archiviato il bling-bling di Sarkozy e dei suoi ricchi amici, i francesi avevano scelto qualcuno che dicesse e facesse cose di sinistra. Le aveva annunciate, Hollande, quelle cose, fino alla reboante e presto accantonata proposta di tassare al 75 per cento i guadagni sopra il milione l’anno. È dovuto scendere a patti, rivedere, correggere, smussare, fino al clamoroso discorso (clamoroso a Parigi) in cui il massimo rappresentante dell’ultimo partito che si definisce orgogliosamente “socialista” ha dovuto annunciare una svolta socialdemocratica, nella scia di quanto è avvenuto nell’Occidente tutto. Era la presa d’atto dell’impossibilità di tenere fede a un’ideologia che lo aveva accompagnato fin sugli scalini dell’Eliseo, salvo essere abbandonata in nome del pragmatismo nell’esercizio di governo. Non poteva non pagare dazio in un Paese, la Francia, dove welfare e diritti acquisiti sono parole d’ordine a cui è ancora più difficile rinunciare rispetto all’Italia. Dove alcune riforme, pensioni, lavoro, sono costate e costano scioperi generali, moti di piazza non accademici ma partecipati e di lunga durata. Hollande si è acconciato a varare una legge simile al Jobs Act di Renzi per ritrovarsi il Paese paralizzato all’apertura dei campionati europei di calcio (sospirata vetrina internazionale dopo i mesi bui degli attentati), ha dovuto fare marcia indietro su alcuni punti, edulcorare, troncare, sopire. Come succede, è vero, per ogni concertazione, ma nel suo caso dando l’idea di essere sempre in mezzo al guado tra i richiami della foresta di una fede politica delle origini e la condiscendenza verso ceti che certo non sono il suo elettorato consueto.
Gli affanni dell’economia si traducono in cifre impietose. Non hanno un lavoro tre milioni e mezzo di francesi (ad agosto la disoccupazione è aumentata dell’1,4 per cento sul mese precedente), le stime di crescita del Pil sono sempre riviste al ribasso, l’Eliseo come Palazzo Chigi. E non basta aver ridotto il rapporto deficit-Pil al 3,5 nel 2015 dal 4,8 nel 2012. Non è da quello che si misura la felicità di cittadini fiaccati da un lungo digiunare: beninteso in paragone col passato, perché viviamo pur sempre, noi europei, nell’area del mondo col reddito medio pro capite più alto e il nostro attuale standard sarebbe la felicità di buona parte degli abitanti del pianeta.
L’economia, certo. Ma ad aggravare il quadro, nel quinquennio che va a chiudersi, c’è la crisi conclamata di un modello dell’identità francese, una frattura sociale, in particolare con gli oltre cinque milioni di musulmani che abitano nell’Esagono. Marine Le Pen e il Front National ne sono i primi beneficiari. Ma anche la destra tradizionale, ora ribattezzata “Républicains” per assonanza con gli omologhi americani, trova nuova linfa sul terreno a lei più congeniale di un nazionalismo sciovinista con accenti più o meno acuti. Hollande e la sinistra sono senza risposte davanti al combinato disposto dello sconvolgimento epocale delle migrazioni e dei kamikaze in patria. Oscillando tra una rincorsa della destra rancorosa e richiami, in realtà sempre più flebili, ai valori su cui si è fondata la Francia. Di più: ai valori che la Francia ha regalato all’Europa. Spettacolare in questo senso, la doppia morale dei poliziotti mandati alla frontiera di Ventimiglia per impedire l’afflusso di profughi dall’Italia e le critiche agli inglesi che hanno sigillato il loro confine. Creando le condizioni per il più grande campo profughi del Continente a Calais, quella “giungla” che il presidente ha promesso di smantellare entro la fine dell’anno.
I tempi sono eccezionali. Meriterebbero uomini eccezionali. Hollande non ha trovato, nel suo zaino, il bastone del maresciallo. Da presidente normale si è trasformato nel re tentenna incapace persino di tenere una linea da un giorno con l’altro. Hollande è contemporaneamente l’uomo di Ventotene, l’uomo di Atene dove con Renzi e Tsipras concorda un rilancio delle politiche di crescita contro il rigore, l’uomo di Bratislava dove si rimangia tutto per accordarsi a una cancelliera che controlla i conti e dice il suo “nein”.
Così vivacchia in attesa dell’aprile, il crudele aprile, quando non sa nemmeno se ci sarà nella campagna elettorale per l’Eliseo, l’unica che conti davvero nel Paese per eccellenza presidenzialista. Il suo credito è talmente in ribasso che il partito gli impone le primarie. I segnali lasciano intendere che si sottoporrà a un rito umiliante per un capo dello Stato uscente. Saranno a gennaio e nessuno degli avversari sembra degno del suo rango. Anche le vincesse, potrebbe subire l’onta di non arrivare al ballottaggio. I sondaggi disegnano uno scontro tra destra (Juppé o Sarkozy) contro estrema destra (Marine Le Pen). Era già successo nel 2002 con Le Pen padre e Chirac. Sembrava un’eccezione impossibile da ripetere. La banalità di François Hollande può rendere ordinaria anche l’eccezione.