Il segretario di Scelta civica, messo in minoranza e finito nel gruppo Misto, rivendica l'uso del nome a Montecitorio. Per fare un rassemblement autonomo insieme all'ex braccio destro di Berlusconi, che entrerebbe ufficialmente in maggioranza. Se l'operazione riesce, le risorse a disposizione lieviterebbero
Una questione politica, innanzitutto. Ma anche economica. Il matrimonio fra Denis Verdini e il viceministro dell'Economia Enrico Zanetti,
anticipato mesi fa dall'Espresso, appare sempre più vicino. Obiettivo: la fusione parlamentare a Montecitorio, in modo da avere maggior peso e traghettare ufficialmente l'ex braccio destro di Silvio Berlusconi in maggioranza. Un progetto finora costato caro a Zanetti: messo in minoranza, a luglio ha
lasciato il gruppo di Scelta civica ed è finito nel Misto, dove solo in quattro su 20 lo hanno seguito. Adesso, dopo la separazione, la disputa: a chi spetta l'uso del nome?
Zanetti lo rivendica quale segretario e quindi titolare del simbolo, i "legittimisti" (alcuni dei quali nemmeno iscritti al partito) in virtù dell'elezione con Sc e col fatto di essere la maggioranza. Una situazione kafkiana, mai verificatasi prima, epilogo di una serie di litigi e abbandoni che caratterizzano da sempre la creatura fondata da Mario Monti (da cui, non a caso, anche lui ha preso le distanze).
Per quanto paradossale, la questione non è solo formale, ma strettamente connessa all'aspetto economico. I partiti che hanno partecipato alle elezioni, difatti, possono ottenere una deroga al Regolamento e costituire un gruppo parlamentare anche senza arrivare a 20 deputati, come già accaduto con Fratelli d'Italia. Uno status che consente di partecipare alla conferenza dei capigruppo che decide il calendario dei lavori, avere più spazio durante gli interventi in Aula, evitare di raccogliere le firme per presentarsi alle elezioni e soprattutto ricevere le generose risorse stanziate dalla Camera. Soldi che alla vigilia dell'abolizione del finanziamento pubblico ai partiti, previsto nel 2017, si rivelano sempre più fondamentali per svolgere attività politica, come mostra il caso del Pd, che con quel denaro ci finanzia pure le feste dell'Unità.
Al momento sia i legittimisti che gli scissionisti sono lontani dalla fatidica "quota 20": 16 sono gli onorevoli rimasti in Scelta civica, altrettanti quelli che dovrebbero formare il rassemblement vagheggiato da Verdini e Zanetti. Considerando che Montecitorio eroga ai gruppi oltre quattromila euro al mese per ogni deputato che ne fa parte, sul piatto ci sono quasi 800 mila euro l'anno. Un significativo incentivo alla fusione: allo stato attuale, da separati, il viceministro e l'amico Denis ne ricevono la metà.
Una gran parte delle risorse assegnate al gruppo Misto (2,1 milioni nel 2015) viene infatti assorbita dai costi per il personale, che svolge funzioni comuni. Di conseguenza i soldi versati alle varie componenti politiche (al momento ben otto) sono assai di meno: 2500 euro al mese a deputato. E per chi non è iscritto ad alcuna componente (come nel caso dei cinque fuoriusciti da Scelta civica) la cifra scende a 800 euro. Attualmente, insomma, le pattuglie di Verdini e Zanetti possono contare su meno di 30 mila euro al mese per l'attività politica. Se dovessero fondersi, ne percepirebbero circa 65 mila. Denaro fondamentale per sopravvivere e far camminare quel "Cantiere dei moderati, riformisti e liberaldemocratici" che il viceministro dell'Economia ambisce a costruire all'interno del centrosinistra.
L'ultima parola spetta all'Ufficio di presidenza della Camera, chiamato a decidere se concedere la deroga ai 16 di Scelta civica, al duo Verdini-Zanetti o a nessuna delle due formazioni. La presidente Laura Boldrini ha incaricato di compiere un'istruttoria giuridica il democratico Giovanni Sanga.