Pubblicità
Mondo
ottobre, 2016

L’altra faccia della Svizzera

Dietro il rifiuto dei frontalieri c’è anche la paura della povertà. Che nella Confederazione si sta diffondendo. E ormai coinvolge un cittadino su dieci 

L’arca di Noè esiste. È in Chemin de la Mère-Voie, una strada di campagna a sud di Ginevra. Dove una decina di container colorati ospitano gli “invisibili”, quelli che non ce l’hanno fatta. Come Natan, buona famiglia ma una vita randagia alle spalle. Come il mastro orologiaio Gerald, che dopo il divorzio ha perso la testa e il lavoro. Come Carlos, licenziato dall’Onu e poi caduto in depressione.

È anche questa la Svizzera: il Paese delle banche e del benessere, certo, ma anche quello della paura della povertà e degli stranieri. È la Svizzera che una settimana fa ha votato sì al referendum contro i frontalieri. Dove, secondo i dati Caritas, una persona su dieci vive sotto la soglia di povertà. Fra loro, almeno la metà (circa mezzo milione di persone) versa in stato di grave indigenza.

Da Ginevra a Zurigo, da Berna a Lugano, ormai sono attive associazioni che soccorrono i clochard, raccolgono cibo e vestiti per i più bisognosi, forniscono assistenza alle ragazze-madri, ai disoccupati, ai pensionati poveri. Altri centri caritatevoli aiutano i cosiddetti “working poor”, un fenomeno relativamente nuovo per questo paese: quelli che, pur lavorando a tempo pieno, non ce la fanno a sopravvivere degnamente in una delle economie più care al mondo. «Non degnamente, per i nostri parametri, significa ad esempio non riuscire a pagarsi l’assicurazione sanitaria, obbligatoria e privata», spiega Sophie Fürst della Caritas di Zurigo, «o non potersi permettere un appartamento adeguato, o dover rinunciare alle vacanze. La povertà, qui in Svizzera, è la mancanza di prospettive, la lenta esclusione dalla società».
[[ge:rep-locali:espresso:285234105]]
Il governo confederale ha messo a punto un buon sistema di sussidi sociali eppure solo nel 2012 ha riconosciuto ufficialmente il problema dell’indigenza che - nonostante l’intervento dello Stato - continua ad aumentare.«Lo spirito calvinista colpevolizza chi non ce la fa, chi non ha successo» attacca Noël Constant, presidente di Carrefour-Rue. «La povertà diventa un tabù, un’onta vergognosa da nascondere. Così molte persone non usufruiscono dei servizi sociali e spariscono dalle statistiche».

A Ginevra Carrefour-Rue è una garanzia: ogni giorno offre da mangiare a 250 persone, garantisce un alloggio a un centinaio di senzatetto e permette a tutti - al centro “Le point d’eau” in Rue Chandieu - di farsi una doccia quotidiana. «I denti e i piedi», spiega il responsabile, Mikael Brutsch, «sono i punti deboli di ogni homeless e qui cerchiamo di curare entrambi. A Ginevra si stimano 500 senza fissa dimora. Nel 2015 il numero di persone che ha richiesto di dormire nei rifugi pubblici è aumentato del 30 per cento: capisce perché siamo sempre pieni?». L’ufficio informale di Carrefour-Rue è un ristorante in Rue de Grottes, L’Espadon. A mezzogiorno arrivano Noël e il suo braccio destro, Vince Fasciani. Ordinano da bere e si siedono al tavolo con una donna sui 45 anni, bionda, sorridente. È un’infermiera a domicilio ma da due anni dorme in macchina. Li sta pregando di trovarle un posto per passare la notte in una delle loro strutture: il villaggio Noè, l’Eureka o La Coulou.

La Coulou è al primo piano di un palazzo affacciato su Rue de la Coulouvrenière. Qui molti hanno storie simili, persone che a un certo punto hanno perso tutto e sono diventati “ex”: ex bancari, ex politici, ex imprenditori, ex piloti di linea o ex professionisti (come Michael, 60 anni, che lavorava nelle telecomunicazioni). Alessio, 54 anni, è un ex cameriere, italiano di Gorizia: «Dopo che mi hanno licenziato ho vissuto in stazione, sotto i portici di una chiesa, a casa di amici, finché non sono entrato qui». A La Coulou da 12 anni lavora Guillaume Taramarcaz, un 38enne che si sta laureando in scienze sociali con una tesi sulla “geopolitica degli homeless a Ginevra”. «La loro vita», spiega, «è davvero complicata. In Svizzera è illegale dormire sotto i ponti o sugli autobus. Ti danno la multa, e l’importo sale ogni volta successiva che ti fermano. A volte capita che la polizia li porti in periferia, lontano dalla città, e li abbandoni nei boschi. Non solo: i vagabondi non possono pagare le assicurazioni sanitarie e le tasse, e così abbiamo persone che dopo due o tre anni di vita randagia accumulano fino a 20 mila franchi di debiti verso lo Stato».
svizzeraimage-jpg

In Svizzera il vero rischio è la solitudine, quella di chi si ritrova solo a Natale o d’estate quando tutti vanno in vacanza. Ne è convinto Vince Fasciani: «Viviamo in una società rassicurante», spiega, «che ci protegge e ci etichetta: loro sono i poveri, noi no. La realtà è che oggi tutte le classi sociali possono essere toccate dall’indigenza». A Ginevra, chi non ha un letto si rifugia in stazione, si riscalda dentro l’università in Boulevard de Punt-d’Arve o scende nell’ex bunker antiatomico di Pâquis, aperto di notte per ospitare disagiati e senzatetto. Chi ha fame fa colazione al Bateau Genève, una barca ancorata sul Quai Gustave-Ador dove dalle 7 si offrono brioche e caffè, mentre a mezzogiorno si pranza al Jardin Montbrillant, una mensa popolare dove oggi siede Philippe, svizzero 42enne. «Avevo una società di import-export», dice l’uomo, barba incolta ed eskimo militare, «ma ho litigato con il mio socio, ho perso il lavoro, mia moglie mi ha lasciato e sono finito in un vortice di depressione. Oggi ho un appartamento mio ma per mangiare a volte vengo qui».

Al suo fianco si siede un anziano con un piatto di spaghetti al sugo. È David Viry, 80 anni, israeliano che vive in Svizzera da mezzo secolo. Un lavoro alle Nazioni Unite, poi la pensione a 55 anni per motivi di salute. «Ci pago a malapena i 1.500 franchi dell’affitto, due stanze dove vivo da solo», racconta. Ginevra è carissima e un terzo dei suoi lavoratori proviene dai quartieri dormitorio. Il più famoso è quello di Lignon, enorme struttura residenziale diventata ghetto per immigrati. «Prima ci vivevano italiani, spagnoli e portoghesi», dice la danese Enrike, a passeggio con il figlio piccolo, «mentre ora ci sono kosovari, senegalesi, peruviani. Qui vivere costa meno ma Lignon ha anche una pessima reputazione».

Nelle grandi città svizzere l’affitto di un trilocale costa oltre 3.500 franchi al mese, oltre 3.200 euro. L’assicurazione sanitaria per una famiglia con due bambini almeno 1.000 franchi. «Un salario medio è di 6.100 franchi», dice Anne-Lise Thomas, responsabile comunicazione del Centre Social Protestant (Csp) di Ginevra, «ma le statistiche ci dicono che una famiglia con due figli ne spende almeno 8.000. Un salario solo non è sufficiente». Anne-Lise spiega che Csp, in Rue de l’Avenir, ha uno spazio dove si distribuiscono vestiti gratuitamente.

All’ingresso, seduta in un angolo c’è Carol, una signora bionda sui 50 anni che lavorava in banca. Nonostante il licenziamento non ha perso il senso dell’umorismo: «C’è una cosa positiva, sto risparmiando su tutto e ho perfino smesso di fumare». Oltre ai vestiti in Svizzera si raccoglie anche il cibo, quello che i supermercati scartano. In Ticino lo fa l’associazione Tavolino Magico, dieci centri di distribuzione e quasi 16mila beneficiari a settimana. A Ginevra ci pensa Partage, che nel 2015 ha raccolto quasi mille tonnellate di alimenti e li ha ridistribuiti a una sessantina di enti benefici. Fuori dall’associazione, in Rue Blavignac, la mattina si fruga nei cassonetti. L’ex meccanico Rino Marasca ha 71 anni, è in Svizzera dal 1963 ed è venuto a prendere l’insalata per le galline. Giuseppe Scardino, 81 anni, raccoglie mele e finocchi «perché io e mia moglie paghiamo 1.700 franchi di affitto, altri 500 a testa se ne vanno per l’assicurazione sanitaria, e di pensione ne prendo 2.500».

A Zurigo la situazione non è diversa. Vicino al museo zoologico, il Café Yucca (nato 45 anni fa per ospitare tossicodipendenti) da qualche tempo è diventato un luogo di ritrovo per poveri e senzatetto. Qui di giorno si sta al caldo e si mangia a poco prezzo ma per dormire bisogna andare altrove. C’è la casa della Salvation Army, che offre un letto e una zuppa calda. Ci sono lo squallido dormitorio in Rosengartenstrasse e i ponti sul fiume Limmac, in Wasserwerkstrasse. E poi c’è il Pfuusbus, a sud della città: un autobus con tendone dove si può dormire per terra. «Abbiamo 33 materassi ma di solito le richieste sono di più», ci dice Monica Christen, volontaria da nove anni: «Arrivano drogati, alcolizzati, depressi, persone senza un lavoro. E al 70 per cento sono svizzeri». Qui in città c’è anche chi si è inventato un “Invisible Tour”, una visita guidata - due ore, 15 franchi - fatta da ex senzatetto (come Marcel Lauper o Daniel Stutz; per farlo hanno seguito sei mesi di training, anche con un attore) alla scoperta dell’altra Zurigo: quella nascosta delle comunità per alcoolisti, dei centri per tossicodipendenti e delle case di riposo per senzatetto.

In giro per la città, di notte, oltre alla polizia ci sono gli uomini dalla Sip Züri, operatori non armati che fanno prevenzione parlando con gli emarginati, aiutando i senza fissa dimora, rimuovendo le siringhe dai parchi, intervenendo in caso di molestie o spaccio, e raccogliendo i reclami dei cittadini. «In Svizzera», spiega Paola Gallo, «la povertà è legata anche a fenomeni come l’emarginazione o l’incapacità di leggere e scrivere correttamente nella lingua del paese dove si vive: un fenomeno, l’illetteratismo, che nel nostro paese colpisce 800 mila persone». Paola è il direttore di “Surprise”, una rivista bimestrale stampata e distribuita in gran parte da senzatetto, e diffusa in ventimila copie nella Svizzera tedesca. Seduta nella redazione di Zurigo (le altre due sono a Berna e a Basilea), spiega: «Abbiamo 400 venditori di strada, loro acquistano una copia di Surprise a tre franchi e la rivendono a sei. Pensa che fra loro ci sono anche ex avvocati ed ex manager».

È venerdì sera e in Stauffacherstrasse c’è una piccola folla: alle 19 l’associazione evangelico-metodista NetZ4 offre la cena ai bisognosi. «Secondo le Nazioni Unite», dice il volontario Jürg Geilinge, «nel mondo è povero chi vive con meno di due dollari al giorno. Ma in Svizzera non è così. Basta guadagnare meno di 3.000 franchi a famiglia e rischi di fare la fame».

A cena questa sera c’è anche Stephan Maag, un 35enne dalla barba lunga che fino a qualche anno fa era un manager che amava la bella vita e sniffava cocaina. Oggi abita in una casa a Winterthur con una ventina di posti letto dove accoglie chi ha bisogno: tossici, senzatetto, spacciatori; metà di loro sono svizzeri. «Sette anni fa ho sentito la voce di Gesù e ho deciso di aiutare gli altri», racconta dal suo salotto mentre dà un occhio ai tre figli piccoli e la moglie Nadine prepara il caffè. È lei la creativa del gruppo, quella che ha disegnato il sito della loro associazione, Fingerprint (il sito è fingerprint.li). «Non metto filtri, qui possono dormire tutti, mi è capitato di ospitare anche ladri e assassini. Mangiamo insieme, con la mia famiglia. In cinque anni abbiamo avuto solo qualche rissa e un furto, il giradischi». Stephan è cambiato davvero, ma dentro resta svizzero. Per lui le regole sono regole: «Alle nove del mattino tutti fuori. E la sera alle 21 si chiude, chi è dentro è dentro. Tranne se il treno da Zurigo è in ritardo».

L'edicola

La pace al ribasso può segnare la fine dell'Europa

Esclusa dai negoziati, per contare deve essere davvero un’Unione di Stati con una sola voce

Pubblicità