La tecnologia ha profondamente mutato il nostro stare al mondo, ?il modo in cui osserviamo la realtà e viviamo le nostre relazioni. È inevitabile che questi cambiamenti si riflettano anche sulla nostra esperienza della morte. Ne parliamo con il filosofo Mario Perniola.
Possiamo dire che la morte, dopo anni di rimozione, torna protagonista grazie ai social network?
«Negli ultimi anni c’è stato un vero e proprio boom di anziani che ?si sono iscritti a Facebook, il loro numero cresce esponenzialmente ?e quindi, come dire, è abbastanza naturale che il tema della morte ?sia diventato più presente, più diffuso. A questa considerazione si aggiunge la possibilità che Facebook offre di trasformare gli account dei morti in memoriali a loro dedicati. Insomma, mi sembra una straordinaria inversione di tendenza rispetto a un’epoca in cui c’è stato un vero e proprio rigetto della morte, in cui i morti sono stati espulsi dalla circolazione simbolica, dalla quotidianità e non c’era ?più alcun rapporto fra vivi e morti».
Facebook si candida a diventare un grande cimitero virtuale, c’è chi prevede che entro la fine del secolo gli account delle persone morte supereranno quelli delle vive. Che impressione le fa?
«Non mi sembra che ci sia niente di male, anzi. D’altra parte l’umanità è fatta più di morti che di vivi, come scrisse Auguste Comte. I cimiteri sono diventati impraticabili, soprattutto nelle grandi città, ?e quindi mi sembra interessante che Facebook si possa trasformare in un cimitero virtuale ecumenico e globale. Il problema è piuttosto trovare, individuare un erede digitale, perché questo erede deve essere educato, preparato ad accogliere questo nuovo tipo di eredità. Al momento attuale il “contatto erede” di Facebook può fare poche cose: scrivere un breve post per ricordare la persona morta, una sorta di epitaffio, aggiornare l’immagine del profilo e rispondere ?a nuove richieste di amicizia. Quello che invece mi sembra più interessante è la possibilità che i contenuti prodotti da una persona possano vivere ancora, siano tramandati grazie a un erede digitale».
Siano insomma eterni. A questo proposito esiste una piattaforma digitale, si chiama Eter9, che promette l’immortalità digitale. ?Si tratta di un’intelligenza artificiale che osserva i nostri comportamenti sui social network e impara a replicarli in maniera autonoma una volta che saremo passati a miglior vita.
«Mi sembra una cosa sinceramente di pessimo gusto. Il “contatto erede” di Facebook è un essere umano e non un algoritmo ed è per questo motivo che questa figura mi affascina e mi interessa. In passato mi sono occupato del concetto di Postumano, ma in quel caso, nel rapporto fra l’uomo e la macchina, è l’umano che imita l’oggetto e non la macchina che sostituisce l’umano. C’è chi è convinto che in un’epoca dominata dalla rete la nostra fisicità sia sempre meno essenziale, io non la penso così. Dobbiamo fare i conti con il nostro corpo, con le malattie, la vecchiaia, certo possiamo nascondere tutto questo, possiamo comunicare con persone lontane e forse inconsapevolmente avremo a che fare con degli algoritmi ?e non con degli umani, ma alla fine dei conti, anche grazie alla realtà indubitabile della nostra morte organica, non potremo eludere la nostra condizione materiale, fisica. Il resto mi sembra appartenga piuttosto a certa letteratura distopica. Mi viene in mente un romanzo di William Gibson, “Neuromante”, sorta di manifesto cyberpunk pubblicato in Italia trent’anni fa, nel quale uno dei personaggi, un hacker di nome Flatline, è morto e ciò nonostante la sua mente, ?la sua personalità continua a vivere nella rete».
In futuro, proprio grazie all’intelligenza artificiale, potremo ?far rivivere i nostri cari, vedere la loro immagine prendere vita, ascoltare la loro voce, dialogare con loro, chiedere loro consigli. Non l’attrae questo scenario?
«Per nulla, anzi lo trovo disturbante. Per dialogare bisogna avere pensieri, un’anima: il semplice osservarci non permetterà a una macchina di rubarci l’anima. Io dialogo continuamente con i miei cari, con la mia prima moglie che purtroppo è morta giovane, con mio padre. Quando devo prendere una decisione importante mi rivolgo a loro, mi metto in ascolto, e lo faccio alla vecchia maniera, senza l’aiuto delle macchine, senza l’inganno di un’immagine artefatta. Mia moglie non lo sopporterebbe, era un’iconoclasta, distruggeva tutte le fotografie che la ritraevano».
Quarant’anni fa, nel 1976, veniva pubblicato in Francia il saggio di Jean Baudrillard “Lo scambio simbolico e la morte”. Verso la fine c’è questo passaggio: «Ovunque braccata ?e censurata, la morte risorge dappertutto. Non più come folclore apocalittico, ma svuotata di qualsiasi sostanza immaginaria, essa passa nella realtà più banale». Cosa c’è ?di più banale oggi del linguaggio dei social network?
«I social network sono senz’altro lo specchio di una banalità diffusa ed è probabilmente vero che oggi mancano gli strumenti tradizionali per affrontare la morte e il lutto. È anche per questo che si utilizza un linguaggio banalizzato. Mi viene in mente un episodio che mi ?è capitato di recente e che mi ha molto colpito: una conoscente mi ha inviato un messaggio per informarmi della morte della madre e insieme al testo mi ha spedito un’emoticon, una faccina che piange. Altra banalizzazione mortifera è quella del selfie: Roland Barthes diceva che mettersi in posa per una foto ci trasforma da soggetto ?in oggetto, ci consente una piccola esperienza di morte, si diventa spettri. Nel selfie questa esperienza diventa grottesca, si banalizza, il selfie nega la vita e al tempo stesso la morte, è un continuo atto ?di sospensione privo di esperienza».