Con la Renzi-Boschi si tenta di mettere un freno ai conflitti tra potere centrale e locale. Un braccio di ferro che ha generato 1.583 contenziosi in 15 anni. Su questioni che vanno dalla stabilizzazione dei precari in Puglia fino alle leggi discriminatorie dei leghisti lombardi

Da una parte ci sono i parlamentini regionali, più vicini ai bisogni del territorio: dall’altra il centralismo burocratico dello Stato.

Per quindici anni, dalla modifica del Titolo V della Costituzione, i consigli di tutte le Regioni hanno legiferato sulle materie concorrenti, in tandem tra i poteri centrali e locali. Materie delicate come sanità, polizia locale, protezione civile, porti e aeroporti civili.

Ora il premier-rottamatore Matteo Renzi vuole «cambiare verso» e riportare il controllo di questo Moloch di norme e regolamenti ad uso esclusivo dello Stato, grazie al nuovo articolo 117 sottoposto al referendum del 4 dicembre.

La riforma Renzi-Boschi punta a cancellare le materie concorrenti e grazie alla clausola di supremazia la Repubblica può avocare qualsiasi legge regionale per tutelare l’interesse nazionale.

Ridisegnando la geografia delle competenze: con la riforma solo Roma sarà responsabile dell’energia, delle infrastrutture, la tutela e la sicurezza del lavoro, il commercio con l’estero, l’ordinamento delle professioni e il coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario.

Una scelta politica dettata soprattuto dai numerosi conflitti tra “centro” e “periferia” decisionale. Il braccio di ferro ha prodotto ben 1.583 contenziosi dal 2002 al 2015, praticamente ne matura uno ogni tre giorni.

Questa guerra strisciante e silenziosa a colpi di carte bollate è mossa soprattuto da una forte spinta localistica e permette di aprire corsie preferenziali per i residenti, regolamenti restrittivi per le attività dei migranti, pulsioni separatiste e palesi contraddizioni di svariati articoli della Costituzione.

In questo panorama ecco le leggi anti phone center e moschee della Lombardia, la stabilizzazione dei precari nella galassia delle partecipate pugliesi e il controverso referendum per l’indipendenza del Veneto che vorrebbe copiare il vicino Trentino Alto-Adige e mettere le mani su 20 miliardi di euro di tasse.

Un ping-pong di leggi e leggine di stampo regionale che hanno fatto avanti e indietro con la Corte Costituzionale, chiamata spesso a fare da arbitro.

LA LOMBARDIA CONTRO 
La diatriba tra Milano e Roma è soprattuto una battaglia ideologica. Da vent’anni i “barbari sognanti” della Lega Nord insieme agli alleati storici di centrodestra legiferano grazie al controllo assoluto della Regione Lombardia. Partorendo regolamenti e norme spesso “contro” i poteri dello Stato e “contro” i migranti.

Nel 2006 il Pirellone scrive nuovi vincoli sui phone center, i centri dove si può telefonare e navigare in Internet, imponendo l’autorizzazione solo in caso di requisiti stringenti come il doppio bagno, la sala d’aspetto e niente attività di money trasfert e spedizione pacchi.

Ecco come spiegava l’iniziativa il consigliere del Carroccio Fabrizio Cecchetti, diventato nel frattempo vicepresidente del consiglio lombardo: «La Lega Nord ha sempre sostenuto la potenziale pericolosità di questi centri di telefonia che, in troppi casi, si sono dimostrati fucina di illegalità e ritrovo di immigrati clandestini. È uno strumento in più per garantire ai lombardi maggiore sicurezza».

Peccato che nel 2008 una sentenza della Consulta stabilisce che le limitazioni per ragioni di sicurezza, a cui implicitamente si rifaceva il legislatore lumbard, possono essere prese solo dall’autorità statale e per motivi previsti nel Codice delle comunicazioni. Risultato comunque raggiunto: 250 esercizi di questo tipo hanno dovuto chiudere i battenti.

Negli anni c’è stato un crescendo di iniziative simili: norme per limitare i locali che vendono kebab, penalizzazione degli enti locali e degli albergatori che accolgono i profughi, test d’italiano per alunni stranieri, mozioni per bloccare i testi “gender” nelle scuole, leggi discriminatorie per l’alloggio popolare.

Il culmine nel 2014 quando viene presentata la legge anti-moschee infarcita di prescrizioni che impongono rigide regole, precisi vincoli e attente norme di controllo per poter ottenere i permessi di edificare nuovi luoghi di culto.

Dietro, però, si nasconde dell’altro: negare ad ogni modo la possibilità di ritrovarsi e pregare ai musulmani italiani per garantire più sicurezza. Così il tema della libertà di culto (regolata dallo Stato) viene strumentalizzata e ridotta ad una questione squisitamente urbanistica (regolata dalla Regione).

Il Governo la impugna e lo scorso febbraio arriva il verdetto: le disposizioni pensate e scritte in Lombardia sono incostituzionali e discriminatorie e violano il principio della libertà di culto. Per il governatore leghista Roberto Maroni è «solo ritorsione e non ci intimidisce» ribadendo la volontà di andare avanti.

L’AUTONOMIA DEL VENETO
È soprattutto una questione di «schèi» il referendum per l’indipendenza del Veneto. «Vogliamo una regione fiscalmente indipendente sul modello delle province di Trento e Bolzano», ha spiegato il governatore Luca Zaia: «Significa che i nove decimi delle tasse restano qua. Sono tasse che restano sul territorio e tanto per dare una suggestione rimarrebbero qui 20 miliardi di euro, questo vale il progetto».

Ecco che la macchina per far diventare il sogno di indipendenza una realtà si mette in moto. Si parte a novembre 2012 con la prima risoluzione del Consiglio regionale del Veneto su impulso leghista e sponda del Pdl. Il testo dell’atto lascia ampio spazio al mito.

Si descrive il «popolo veneto» come «una realtà storica millenaria organizzata in modo sovrano, in un preciso ambito territoriale ove ancor oggi si parla la stessa lingua». Si afferma che è nelle facoltà del popolo veneto «invocare e rivendicare il diritto alla verifica referendaria (di conferma o smentita) dell’atto di adesione del Veneto all’ordinamento statuale italiano del 1866».

Dopo due anni si arriva alla legge regionale n. 15 del 19 giugno 2014 che prevede un quesito secco: «Vuoi che la Regione del Veneto diventi una regione a statuto speciale?».

Il governatore Zaia alza il tiro e sulle cronache dei giornali locali chiede un election day unico per dicembre. Prima però arriva lo stop dalla Consulta che precisa: «Scopo di una consultazione popolare è includere la Regione Veneto nel novero delle Regioni a statuto speciale, tassativamente enumerate nell’articolo 116 della Costituzione. Tale quesito incide, pertanto, su scelte fondamentali di livello costituzionale che non possono formare oggetto di referendum regionali. Per questi motivi si dichiara l’illegittimità costituzionale».

LA CORSIA PREFERENZIALE
Non è solo una questione del Nord. In Puglia Nichi Vendola prima di mollare la carica di presidente decise di estendere alle agenzie regionali, agli enti, all’autorità di bacino e alle società in house della Regione la possibilità di stabilizzare i precari storici che lavorano per l’universo delle controllate.

Una maxi-sanatoria messa nero su bianco da una articolo ad hoc della legge regionale 47 del 2014. Passano due anni e puntuale arriva la bocciatura.

L'articolo viola l'articolo 117 della Costituzione che regola la podestà legislativa dello Stato e delle Regioni.

Passano pochi mesi e arriva un’altra doccia fredda: nessuna corsia preferenziale per i parenti di vittime di mafia e affossata la leggina chiamata “Promozione della cultura della legalità, della memoria e dell’impegno”.

In particolare, nella parte in cui si inseriscono anche i conniventi more uxorio e i genitori tra i beneficiari del collocamento obbligatorio nella pubblicazione amministrazione delle vittime della mafia, della criminalità organizzata, del terrorismo e del dovere.

Troppa disparità di trattamento tra i parenti e tutti gli altri cittadini che solo a Bari avrebbero trovato un posto di lavoro ritagliato su misura. E poi, banalmente, la questione selezione: «Si impone il concorso quale modalità di reclutamento del personale delle pubbliche amministrazioni».