Le scelte politiche di Bergoglio sono chiare. La lotta contro “l’economia che uccide” e la simpatia per i movimenti degli esclusi in America Latina
È ormai evidente che il pontificato di Francesco ha due assi portanti, religioso e politico. Quello religioso è la pioggia di misericordia che purifica tutti e tutto. Quello politico è la battaglia su scala mondiale contro «l’economia che uccide», che il papa vuole combattere assieme a quei «movimenti popolari», definizione sua, in cui vede brillare il futuro dell’umanità.
Bisogna risalire a Paolo VI per trovare un altro papa familiare a un disegno politico organico, nel suo caso quello dei partiti cattolici europei del Novecento, in Italia la Dc di De Gasperi e in Germania la Cdu di Adenauer. A questa tradizione politica europea, peraltro tramontata, Jorge Mario Bergoglio è estraneo. Da argentino, il suo humus è tutt’altro. E ha un nome che in Europa ha un’accezione negativa, ma non nella patria del papa: populismo.
«La parola popolo non è una categoria logica, è una categoria mistica», ha detto Francesco lo scorso febbraio, di ritorno dal Messico. In seguito, intervistato dal suo confratello gesuita Antonio Spadaro, ha affinato il tiro. Più che «mistica», ha detto, «nel senso che tutto ciò che fa il popolo sia buono», è meglio dire «mitica». «Ci vuole un mito per capire il popolo». E questo mito Bergoglio lo racconta ogni volta che chiama attorno a sé i «movimenti popolari». L’ha fatto finora tre volte: la prima a Roma nel 2014, la seconda in Bolivia, a Santa Cruz de la Sierra, nel 2015, la terza lo scorso 5 novembre, di nuovo a Roma. Ogni volta infiamma l’uditorio con discorsi che messi insieme formano ormai il manifesto politico di questo papa.
I movimenti che Francesco chiama a sé non li ha creati lui, gli preesistono. Sono in parte eredi delle memorabili adunate anticapitaliste e no-global di Seattle e Porto Alegre. Con in più la moltitudine dei reietti da cui il papa vede prorompere «quel torrente di energia morale che nasce dal coinvolgimento degli esclusi nella costruzione del destino del pianeta».
È a questi «scartati dalla società» che Francesco affida un futuro fatto di terra, di casa, di lavoro per tutti. Grazie a un processo di loro ascesa al potere che «trascende i procedimenti logici della democrazia formale». Ai «movimenti popolari», il 5 novembre, il papa ha detto che è giunto il tempo di fare un salto nella politica, «per rivitalizzare e rifondare le democrazie, che stanno attraversando una vera crisi». E se per questa rivoluzione mondiale è necessario un leader, c’è chi l’ha già additato proprio nel papa. È ciò che ha fatto un anno fa nel Teatro Cervantes di Buenos Aires il filosofo italiano Gianni Vattimo, voce ascoltata dell’ultrasinistra mondiale, quando ha perorato la causa di una nuova Internazionale «comunista e papista», con Francesco come suo leader indiscusso, per combattere e vincere la «guerra di classe» del XXI secolo. Al fianco di Vattimo sedeva un compiaciuto monsignor Marcelo Sanchez Sorondo, argentino, collaboratore stretto di papa Bergoglio in Vaticano.
Le potenze contro le quali si ribella il popolo degli esclusi sono, nella visione del papa, «i sistemi economici che per sopravvivere devono fare la guerra e così sanano i bilanci delle economie». È questa la sua chiave di spiegazione della «guerra mondiale a pezzi» e dello stesso terrorismo islamico. Intanto, però, per le sinistre populiste sudamericane, per le quali Bergoglio manifesta tanta simpatia, si assiste a un rovescio dopo l’altro: in Argentina, in Brasile, in Perù, in Venezuela.
A parziale conforto del papa, da quest’ultimo paese è venuto il nuovo superiore generale della Compagnia di Gesù, padre Arturo Sosa Abascal, che per tutta la vita ha scritto e insegnato solo di politica e di scienze sociali, marxista in gioventù e sostenitore dell’avvento al potere di Hugo Chávez, cioè di colui che ha portato il “pueblo” venezuelano al disastro. Ma a scompaginare la politica di papa Francesco sono arrivate anche la morte di Fidel Castro e l’elezione di Donald Trump, quest’ultimo sorprendentemente votato proprio dagli «scartati» della grande industria capitalista.