Dalle sentenze al senso comune il senso della pericolosità è rimasto come incistato nei cervelli di ciascuno di noi. Situato all’incrocio tra il sapere medico e il sapere giudiziario

Illustrazione di Giuseppe Fadda
L'idea di pericolosità che una cultura neoilluminista avrebbe dovuto disinnescare e lasciarsi alle spalle, continua invece a tenere il campo e a produrre effetti inquietanti. La nozione di individuo pericoloso, quell’individuo che potremmo incontrare giù all’angolo della strada, sembra profondamente radicata nelle nostre menti, quasi non avessimo a disposizione alcuno strumento per contrastarla davvero o solo per snidarla: è molto difficile trovare qualcuno completamente immune, anche se molti pretendono di esserlo. È un pregiudizio? Non saprei battezzarlo: di sicuro agisce prima di ogni valutazione e contro ogni buon proposito.

Michel Foucault ci ha raccontato, in alcuni suoi scritti degli anni Settanta, come nasce nella modernità questa nozione che in definitiva coincide con l’idea di anormale. L’individuo pericoloso viene descritto dalla psichiatria di allora come un tipo di folle capace di esplosioni imprevedibili e incontrollate, una follia monomaniaca, come la si chiamava, tanto più sorprendente quanto meno incanalabile in un profilo individuale di vita.

Famosa è rimasta, grazie allo stesso Foucault, la vicenda del giovane contadino francese Pierre Rivière che d’improvviso stermina buona parte della propria famiglia e poi scappa nei boschi. Non aveva dato fin lì particolari segni di squilibrio (sarà lui stesso a fornirne qualche traccia in una “memoria” di sorprendente lucidità scritta in prigione dopo la cattura), il che metterà a lungo in scacco la giustizia del tempo e gli stessi psichiatri, tra cui il notissimo Esquirol. Infatti, ci si comincia allora a chiedere come trattare una pericolosità che si situa all’incrocio tra il sapere medico e il sapere giudiziario.

Ancora oggi, quando sono passati quasi due secoli e la questione è stata studiata in lungo e in largo, restano parecchie ombre. Da noi, nonostante la chiusura dei manicomi (la “rivoluzione” condotta da Franco Basaglia prima a Gorizia e poi a Trieste, con il suo esito in una legge nazionale, la “180”, decisamente pionieristica), la soppressione dei cosiddetti Ospedali psichiatrici giudiziari è cronaca recentissima, ma le ombre potranno comunque essere completamente diradate solo nel momento in cui dal Codice penale scomparirà ogni riferimento all’individuo pericoloso (“pericoloso a sé e agli altri”), un individuo come tale criminogeno.

Per ora simile norma, nonostante tutto, sussiste nella sua evidente vaghezza e nella sua impressionante lontananza dal mondo reale e dagli sviluppi effettivi della nozione stessa di individuo pericoloso. Dopo le teorie della “degenerazione” e dopo gli studi di Cesare Lombroso, per fare solo due esempi, la pericolosità individuale appare adesso inscindibilmente collegata al calcolo dei rischi che una società deve prevedere e prevenire. Le teorie della “degenerazione” hanno cercato di rispondere allo scacco di una pericolosità immotivata con l’ipotesi di tare ereditarie (oggi diremmo, leggibili nel Dna di una persona), e non c’è bisogno di ricordare le nefandezze di massa perpetrate dai regimi autoritari del secolo scorso (ma non solo lì) per liberarsi dai soggetti “deboli”, con pratiche che vanno dalla sterilizzazione alla soppressione fisica dei malati mentali. Roba vecchia? Ma quanto di tale ipotesi degenerativa è rimasto vivo nell’opinione comune (e anche nelle perizie psichiatriche)?

Quanto a Lombroso e alla sua geniale fisiognomica dell’individuo anormale, con annesse immagini dei tratti della mostruosità umana e delinquenziale, è arduo convincersi che questa “cultura” sia ormai scomparsa dalla scena. Al contrario, si ha l’impressione che essa sia rimasta come incistata nei cervelli di ciascuno di noi.

Per negarlo, dovremmo riuscire a dire a noi stessi che il nostro giudizio è totalmente immune dalla immediata valutazione delle fattezze di chi ci capita di incontrare e dunque dalla pretesa di capire al volo se si tratta di qualcuno di cui fidarsi o da evitare. Non c’è neppure bisogno di sottolineare che questo istantaneo identikit di pericolosità può portarci in fretta ad atteggiamenti di tipo razzistico che mai accetteremmo consapevolmente di attribuire a noi stessi.

Insomma, la cartina di tornasole della pericolosità non è certo caduta in disuso e, siccome continuiamo tranquillamente e acriticamente ad adoperarla, dovremmo fermarci un momento a pensare se l’attuale cultura possa effettivamente chiamarsi neoilluministica, a partire proprio da un’analisi autocritica dei modi con cui esprimiamo nel concreto le nostre inclinazioni soggettive.

Riusciamo a dribblare il problema spostando lo sguardo sui rischi sociali? Mi spiego. Esiste da alcuni decenni una pratica culturale che ci invita a distogliere l’attenzione dai singoli individui ritenuti pericolosi per concentrarci piuttosto sui cosiddetti studi attuariali, cioè sul calcolo dei probabili rischi cui sarebbe esposto un contesto sociale, per esempio quelli connessi al terrorismo. Si tratta di un duplice spostamento, dal singolo individuo pericoloso a un collettivo di individui o a una “popolazione” di soggetti produttori di rischio sociale, e, secondariamente, da un’indagine sulla storia pregressa degli individui a una prospezione rivolta al futuro e alla probabilità del danno sociale.

In questo modo non sarebbe solo in gioco la psichiatria con i suoi folli muti e impenetrabili, e neppure avrebbero voce autorevole gli psicoanalisti, i quali hanno sempre tentato con i loro strumenti di penetrare dentro l’enigma della soggettività per dare parole a quanto dell’individuo si oppone con il suo silenzio a fornire una rappresentazione di se stesso. Quella che, invece, viene costruita è l’idea di una società pericolosa di per sé e quindi produttrice di rischi anonimi e diffusi da tradursi in probabilità.

Arrivo così alla domanda decisiva: che ne è attualmente della pericolosità? A me pare che la partita, così impostata, risulti in buona parte truccata. Si vorrebbe cancellare l’idea dell’individuo pericoloso e con essa l’idea stessa di pericolosità, ma si ottiene il risultato opposto di diffondere ovunque il timore del pericolo e al tempo stesso di astenersi da un’indagine critica che scoperchi quanto di ideologico viene conservato nello stigma dell’“individuo pericoloso”. L’altra faccia della ponderazione dei rischi sociali potrebbe rivelarsi quella di un vero e proprio terrorismo psicologico. Il soggetto pericoloso può annidarsi dovunque e in chiunque: può essere chi vive dietro la porta accanto, ma anche chi vive assieme a te, potresti perfino essere tu stesso. La sentenza “pericoloso a sé e agli altri” non solo non viene ancora cancellata da codici ormai antiquati e retrogradi, al contrario sembra potersi applicare in un modo generalizzato e generico, ben al di là dei casi attribuibili a follia individuale. Pericolosi possiamo diventare tutti, basta rientrare per qualche aspetto nel dispositivo della paura sociale.

Cosa significa, infine, pericolosità? Tutto, ma anche niente, poiché l’idea stessa di pericolosità ci sta sfuggendo di mano e sono diventati pressoché inservibili quegli strumenti, che pure avevamo, utili per criticare e smontare il pregiudizio della pericolosità.