Siamo avvelenati dai luoghi comuni. Un saggio analizza dodici frasi fatte, come “aiutiamoli al paese loro” o “prima gli italiani”. Tra numeri e storie di vita, emerge un mondo pulsante del tutto diverso dalla rappresentazione corrente. Eccone un estratto

Ecco un estratto dal libro di Antonello Mangano, “Ruspe o biberon - Migranti. Oltre i luoghi comuni dei buoni e dei cattivi”, (ed. terrelibere.org, Roma)

“Sfrattato e senza lavoro, tenta di darsi fuoco davanti a moglie e figli”. È il titolo di una notizia pubblicata prima sul sito del quotidiano genovese “Il Secolo XIX” e poi su Facebook. Bastano pochi istanti per scatenare una serie di commenti ferocemente razzisti: “Aiutiamo gli italiani, non gli immigrati”, “Pensiamo ai nostri, non a ‘sti maledetti stranieri”. Solo dopo quattro ore, un lettore nota che l’uomo che ha tentato il suicidio è marocchino. Nessuno aveva letto l’articolo, ma tutti avevano agito in base a un riflesso pavloviano di odio gratuito.


Una pura formalità
Il treno parte da Bologna, arriva il controllore e un ragazzo nigeriano prende il suo tablet (aggiungiamo che era piuttosto scassato, prima che qualcuno pensi “vengono qui e hanno l’iPad”...). Il nigeriano mostra la scansione del suo biglietto e spiega: lo ha comprato un mio amico, io non avevo soldi, me lo ha spedito via e-mail. Il controllore non sente ragioni: il biglietto non è valido perché doveva essere stampato. Il ragazzo ribadisce che non aveva i soldi per il biglietto e il suo amico gli ha fatto la cortesia di comprarlo e inviarlo.
Arriva un poliziotto e senza capire bene la situazione inizia la solita litania razzista: “Non rispettano le nostre regole, sono troppi, sono sempre gli africani ad essere senza biglietto”. Il treno sta per arrivare a Firenze. È una tratta frequentata in gran parte da turisti, ma né il poliziotto né il controllore parlano inglese. Io faccio da interprete, ma loro ascoltano solo la parte relativa al biglietto. Così non sapranno mai che il nigeriano sta andando a Crotone perché la mattina dopo lo aspetta l’udienza nella Commissione territoriale. Un incontro che deciderà della sua domanda d’asilo e quindi della sua vita. Se non arriva in tempo, sarà un fantasma senza diritti, un irregolare.
Viene da chiedersi: questo è lo Stato che fa rispettare le “nostre regole”? Quello che impedisce a un richiedente asilo di giocarsi la sua opportunità?
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Il terremoto
“I migranti in albergo, gli italiani nelle tende”. Il terribile terremoto di agosto 2016 ha devastato Amatrice e i paesi limitrofi del centro Italia. Ma ha anche mostrato altre crepe. Quelle di un paese dove il rancore si esibisce anche davanti a grandi tragedie. Alzano la voce i leghisti, i giornali della destra ma anche troppa gente comune incattivita. I migranti ospitati dovrebbero lasciare il posto a chi è rimasto senza casa.
I media ospitano con soddisfazione i racconti di richiedenti asilo che donano i loro pocket money (due euro al giorno) o volontariamente vanno a prestare soccorso. Ma chi fugge da una tragedia è debitore nei confronti di un’altra?

Aiutiamoli a casa loro
Tre episodi tra i tantissimi in un Paese dove prevale la frustrazione e il rancore contro il capro espiatorio straniero. Dall’altro lato si risponde col paternalismo: dobbiamo accogliere i “fratelli migranti” perché hanno tanto sofferto. Oppure minimizzando: arrivano poche persone; fanno lavori dequalificati; e così via...
Facciamo qualche esempio: “aiutiamoli a casa loro”, un vero classico. L’Italia sta stipulando accordi con numerosi paesi africani: dittature, regimi autoritari, paesi in aree di crisi e di conflitto. Dal Sudan all’Egitto, l’obiettivo è fermare le partenze in cambio di aiuti economici. Ma il risultato è che i regimi si rafforzano e incrementano la repressione. Così, aumentano anche le partenze. Come del resto accade da decenni. La politica di accordi con paesi come Libia e Tunisia non fermava i flussi, ma rafforzava i regimi. Ci lamentiamo dell’effetto, ma favoriamo le cause.

Trentacinque euro
Oppure i famigerati “35 euro al giorno”. L’idea del migrante parassita che mangia e dorme nei centri d’accoglienza è molto diffusa. La realtà è un’altra: negli ultimi anni ci sono state violente proteste contro il limbo dell’attesa. Ma nessuno ne ha parlato. Chi vive in un centro, di solito vuole conoscere rapidamente il proprio destino, costruirsi una vita, mandare soldi a casa.
Oppure il termine “clandestini”, spesso usato anche dai media. Si pensa che siano i migranti “cattivi”, quelli che hanno qualcosa da nascondere. Invece sono semplicemente uomini e donne senza documenti. Perché li hanno persi (magari dopo un licenziamento) oppure perché non hanno convinto una commissione. Si può diventa irregolari in molti modi, ma sempre contro la propria volontà. Perché nessuno ha voglia di diventare un fantasma senza diritti.

Trent’anni
L’Italia si confronta con l’immigrazione da almeno trent’anni. Ma sembra di essere sempre all’inizio. Quando incontravamo con stupore le “comunità”, assaggiavamo curiosi il cous cous e c’era sempre chi contestava il termine “integrazione”.
Dopo tre decenni, i migranti africani sono ancora una massa indistinta, non hanno cognome né volontà e sono sempre bisognosi di assistenza. Noi e loro, l’emergenza. Oppure i “fratelli migranti” che “scappano dalle guerre e dalle persecuzioni”. Nel frattempo il mondo va avanti. E siamo diventati da paese meta a paese di transito. Ci siamo chiesti perché la pressione sulle frontiere si è spostata a Como e Ventimiglia? Forse perché i migranti vogliono andare via dall’Italia?