Rapporto dal Paese sempre più ingovernabile. Dove anche i moderati ammoniscono: non vogliamo soldati europei sul nostro suolo. Servirebbero solo per spingere i nostri giovani nelle mani dei seguaci del Califfo

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La base navale di Tripoli, alle sei del pomeriggio, sembra un luogo abbandonato da anni. Tutto è fermo, le macchine non funzionano e tutte le luci sono spente. L’ennesimo black out nella capitale della Libia impedisce la normalità. Il maggiore Asraf al Badri cammina nella base in divisa, alle sue spalle gli uomini della guardia costiera, seduti davanti al mare, di fronte ai resti della flotta libica distrutta dai bombardamenti della Nato del 2011. «Questi sono i frutti degli interventi militari, il regalo che l’Europa ci ha fatto durante la rivoluzione», dice ironicamente al Badri.

«Ricordo quella notte di maggio in cui i raid della Nato hanno affondato otto navi. Speravo che tutta quella distruzione avrebbe portato lentamente a un futuro migliore». Nel 2013, due anni dopo la rivoluzione, l’Unione europea aveva garantito 26 milioni di euro l’anno per i nuovi mezzi della Marina e della guardia costiera, ma con la seconda guerra civile, la situazione è degenerata e quei soldi non sono mai arrivati. Asraf al Badri cammina rassegnato accanto ai resti di una delle navi, piegata su un fianco e arrugginita. Sembra il monumento a una rivoluzione fallita. «Oggi siamo qui con 1800 chilometri di costa, neanche un mezzo per controllarli e tante promesse disattese, le promesse dei governi che volevano aiutarci e invece ci hanno prima bombardato e poi abbandonato. Non ci fidiamo più del vostro aiuto militare».


NON CI FIDIAMO DI VOI
il caso
Libia: unico business, i profughi
1/2/2016

È sul possibile intervento militare che si discute in ogni angolo della Libia e il punto non sembra più essere il se ma il quando. La diplomazia italiana ha sempre sostenuto che sarebbe stata necessaria la formazione di un governo di unità e pacificazione nazionale che invitasse formalmente i Paesi stranieri ad un intervento militare, intanto all’aeroporto di Trapani Birgi sono già schierati 4 caccia Amx e un drone Predator per raccogliere dati sui potenziali obiettivi. Usa, Gran Bretagna e Francia si sono dette pronte ad intervenire e anche la Germania ha detto di essere pronta a mettere in campo le proprie forze per arginare l’avanzata del Califfato. Ma in Libia le reazioni a un intervento armato sono di scetticismo e preoccupazione.

E il governo che doveva nascere dopo la firma dell’accordo Onu del 17 dicembre è già stato bocciato dal governo di Tobruk (quello riconosciuto dalla comunità internazionale e contrapposto a quello di Tripoli autonominato e controllato dalle milizie filo islamiste di Alba libica). Nel frattempo le milizie affiliate allo Stato islamico sferrano attacchi nella zona dei pozzi petroliferi, 650 chilometri a est di Tripoli, e minacciano nuove conquiste: in un video sul Telegram ufficiale dell’Is, Abu Abdelrahman Al Liby ha detto: «Oggi abbiamo preso il porto di Sidra e Ras Lanuf , domani avremo il porto di Brega, Tobruk e al Kufra».

A Misurata, gli uomini si stringono intorno alle televisioni nei caffè, che mostrano le immagini delle colonne di fumo dai pozzi andati in fiamme, mentre dalle radio continuano ad arrivare aggiornamenti: “La situazione a Ras Lanuf è drammatica e potrebbe provocare un danno ambientale catastrofico oltre che peggiorare la nostra condizione economica, già preoccupante”, è scritto in un comunicato di Mohamed al Harari, portavoce della Compagnia nazionale per il petrolio libica (NOC).

“Interi depositi di greggio sono andati a fuoco ed esplosi, numerose linee elettriche sono andate distrutte e un’altra città è stata conquistata dall’Is: Bin Jawad”. La compagnia nazionale libica del petrolio ha invocato ufficialmente un intervento militare per proteggere le aree strategiche: a Sidra e Ras Lanuf hanno infatti sede le installazioni petrolifere più importanti. Prima della rivoluzione, nel 2011, la Libia produceva 1,6 milioni di barili di greggio al giorno, oggi la produzione è scesa a meno di 350.000 barili e il rischio di un ulteriore tracollo economico si fa più concreto. Soprattutto perché l’Is libico non mira a occupare i pozzi per vendere il petrolio quanto a sabotare l’economia per rendere ancora più instabile il Paese e trarre vantaggio dal vuoto di potere.


MORIRE PER I POZZI

Ibrahim Bate al Mal, portavoce del consiglio militare di Misurata, commenta: «Abbiamo sottovalutato il pericolo. E penso che abbiano sbagliato i calcoli anche i governi occidentali. Da un lato l’espansione dell’Is è fuori controllo, dall’altra il pericolo è che con un intervento militare la situazione possa solo peggiorare, questo è il sentimento della nostra gente e delle nostre truppe». La paura tra i militari libici è che il caos che si genererebbe potrebbe spingere i miliziani di al Baghdadi verso sud, nelle aree già controllate dai fondamentalisti e sede di contrabbando e traffici di ogni genere.

Non solo, il timore dei capi dell’intelligence è che possa verificarsi un arrivo in massa di altri miliziani iracheni e siriani, chiamati a difendere le città già conquistate dagli uomini del califfo: «Non è solo l’Is il problema, ci sono tante milizie filo islamiste che non accetterebbero la presenza di stranieri sul suolo libico e l’hanno già dimostrato cacciando i soldati americani due mesi fa. Nessuno crede che l’obiettivo dell’intervento straniero sia di addestramento e supporto logistico, i libici pagano ancora le conseguenze del post rivoluzione e non sono pronti a sopportare un’altra guerra, ma continuano a piangere i loro figli che muoiono per mano dell’Is».

Per proteggere i pozzi, dieci giorni fa sono morti venti soldati del Petroleum Facilities Guard, il corpo addetto alla difesa degli impianti. Il fratello di Mohamed era uno di loro. Mohamed ha circa cinquant’anni, lavora al porto di Misurata, e mentre guarda le immagini dei pozzi di Ras Lanuf dati alle fiamme, ripete a voce bassa: «Ricominceremo a fare le code per la benzina, come nel 2011, non è cambiato niente». Il maggiore dei suoi figli ha poco più di trent’anni e le cicatrici sulla sua gamba destra raccontano i tre mesi in cui ha combattuto la battaglia di Misurata, l’assedio più lungo della rivoluzione che è costato la vita a duemila persone.

La memoria di quella battaglia è affidata a un museo all’aperto, sulla via principale della città, sul marciapiede di fronte ai palazzi ancora crivellati dai colpi ci sono i resti dei carriarmati, le bombe e le armi rudimentali, le fotografie dei “martiri della rivoluzione” e quelle del corpo di Gheddafi martoriato dai ribelli. I ragazzi passano lì davanti distratti. Gli adulti come Mohamed, invece, si fermano rassegnati: «La mia famiglia ha sostenuto la rivoluzione dall’inizio, conosco decine delle persone morte. Ma se mi fermo a pensare a prima della rivoluzione mi rendo conto che allora avevo l’elettricità gratuita, e che i miei figli potevano studiare e curarsi. C’era un dittatore? Certo. Ma oggi siamo succubi di una dittatura peggiore, quella della paura e della mancanza di sicurezza. E i nostri soldi, i pochi che ci sono rimasti, non valgono più niente, mentre il prezzo del pane continua ad aumentare».

Il dinaro libico è in caduta libera, il tasso di cambio ufficiale è 1.40 dinari per un dollaro mentre il valore al mercato nero è di quattro dinari per dollaro e il crollo della moneta rischia di spingere il Paese verso la bancarotta. I dipendenti pubblici come gli insegnanti, gli infermieri e i funzionari dei ministeri, non percepiscono stipendio da quasi dieci mesi e il prezzo dei generi alimentari è aumentato del 30 per cento. «It’s all about money», dice Mohamed. «Era così nel 2011 ed è così oggi. Dopo la rivoluzione nessuno ha più comandato in Libia, l’unica cosa libera era la circolazione delle armi, ogni milizia ha saccheggiato depositi di armi che un tempo erano di Gheddafi e così hanno fatto anche i gruppi estremisti e Ansar al Sharia, prima di appoggiare l’Is. La differenza tra il 2011 e oggi è che i libici non vogliono nessun intervento militare straniero, avete già fatto troppi danni sei anni fa».


TRE GOVERNI, UN VINCITORE: LO STATO ISLAMICO

Alla periferia di Zliten c’era una grande caserma dove si addestravano i giovani che sarebbero diventati poliziotti e guardie costiere. Lo scorso sette gennaio, alle otto del mattino un kamikaze alla guida di un’autocisterna carica di benzina ha sfondato il cancello d’entrata e si è fatto esplodere. Sessantacinque morti, più di cento feriti. Basher Bernani lavora al consiglio municipale e ricorda: «Abbiamo trovato braccia e gambe dei ragazzi fino al terzo piano dei dormitori. Dodici famiglie hanno perso i figli e non possono piangerli perché i loro corpi sono irriconoscibili».

L’attacco alla caserma di Zliten è simbolico anche perché segna la presenza dell’Is nella zona nevralgica tra Tripoli e Misurata. «Ci sono tre governi in Libia», dicono i membri del consiglio municipale di Zliten, «ma un unico vero vincitore: l’Is». Eppure, di fronte alla possibilità di un intervento straniero, anche in questa piccola città tutti sono d’accordo: «Assolutamente no». Il rischio, dicono, è che una forza come l’Is possa usare un attacco straniero come alibi per creare lo spauracchio del nemico occidentale e attecchire più facilmente tra i giovani, non solo libici ma in numero sempre maggiore tunisini, marocchini e algerini che entrano nel paese dai confini colabrodo. Gli europei rischiano di fare peggio e trascinare qui decine di foreign fighters. Avrebbero dovuto intervenire prima, ora Sirte è occupata, ci sono miliziani a Bengasi, Misurata, Ben Jawal, ci sono cellule nella capitale, qui a Zliten, e a Sabratha i due campi di addestramento»

Misurata è strategica nella guerra all’Is, sede della sala operativa militare. Il venerdì nella piazza centrale, i Fratelli Musulmani si raccolgono per pregare. La settimana scorsa, accanto al palco è apparso un manifesto con i volti di Martin Kobler (il tedesco inviato speciale dell’Onu), Khalifa Haftar (capo di Stato maggiore del governo di Tobruk) e Fayez al Sarraj (guida dell’esecutivo che riesce a nascere) coperti di sangue.

Nessuno, in quella piazza, accetterebbe un’intromissione né diplomatica né militare. «Siamo pronti a tutto e possiamo difenderci da soli, ogni intervento non gradito genererà altro sangue», grida dal palco il leader dei Fratelli Musulmani. Ma il sangue non ha mai smesso di scorrere. Dieci giorni fa, Milad Barghouti, 41 anni, di Misurata è stato ucciso e crocifisso nella piazza centrale di Sirte, accusato dai miliziani di al Baghdadi di essere una spia. Suo cugino Yaseen siede in disparte, ai margini della piazza. Non piange, non prega. «Queste persone non sono diverse dai miliziani di Al Baghadi, vogliono il potere e per ottenerlo sono disposte a sacrificare la vita dei nostri ragazzi». Anche Yaseen, non crede che un esercito straniero possa risolvere i problemi. E cosa allora? «Il volere di Allah».