Accade, di rado fortunatamente, che la politica e l’attività legislativa si imbattano in problemi di straordinaria complessità storica e culturale. Sarebbe certo, allora, auspicabile il massimamente improbabile, e cioè una certa consapevolezza che le questioni che si affrontano investono forme di vita e di civiltà, mutamenti di portata antropologica e non qualche moda passeggera.
È il caso degli attuali dibattiti, più o meno piazzaioli, sulle unioni civili, tema che assume il proprio significato soltanto se inserito nel drammatico contesto del rapporto attuale tra scienza-tecnica, politica e vita. Discutere di un aspetto di tale relazione astraendo dagli altri e dall’intero è la follia che ci condurrà ciechi e inconsapevoli chissà dove.
Una certa forma dell’istituto famigliare appartiene a un sistema di relazioni tra persone e generazioni, a un ordine e a gerarchie determinanti per un’intera civiltà. Che essa venga meno, non sia più avvertita come “necessaria”, è sintomo evidente del tramonto di quest’ultima. E le civiltà come nascono anche finiscono. Sarebbe salutare riconoscerlo, prima di decidere se ciò sia un bene o un male.
La nostra storia è stata segnata dall’idea del matrimonio, in quanto istituto giuridicamente normato, come unione di maschio e femmina. In Grecia o anche a Roma nessuno si scandalizzava certo di rapporti omosessuali, ma mai si è pensato che potessero dar vita a “famiglie”. Si dice: ecco appunto, il mutamento radicale che stiamo vivendo contrasta con la natura propria dell’istituto famigliare. Ma “naturale” nell’assetto tradizionale di quest’ultimo non è semplicemente il rapporto maschio-femmina, bensì anche la gerarchia al suo interno, la patria potestas che lo regge, la parte attiva in ogni senso che è chiamato a svolgervi, rispetto alla donna, il maschio. Come essere tanto sprovveduti dal volere, almeno a parole, che queste relazioni vengano completamente rivoluzionate, poiché “innaturali”, e, a un tempo, che la forma giuridica del matrimonio possa restare invece intatta?
Penso che soprattutto i cattolici dovrebbero riflettere su questo aspetto: proprio il cristianesimo,almeno nel suo messaggio più originario e autentico, ha sconvolto la “naturale sublimazione” del potere maschile.
Non si tratta di dogmatiche astratte, di “sesso degli angeli”, ma di colossali rivoluzioni che giungono a informare di sé sensibilità e immaginazione: inizia senza dubbio col cristianesimo un’età in cui Donna e Figlio sconvolgono dalle fondamenta la percezione e la vita reale dell’istituto famigliare classico.
Noi viviamo probabilmente il momento ultimo di questa rivoluzione, in cui ogni “legge naturale” è interpretata alla luce dell’amore e sottoposta al “nomos tes agapes”, alla “legge” paradossale di quest’ultimo.
Folle declinare tutto ciò, come certo sembra avvenire, in termini sentimentali o appellandosi alla semplice libertà dell’arbitrio.
Ma sarebbe molto più coerente da parte di un “pagano” che di un cristiano difendere l’assetto tradizionale della famiglia appellandosi a Madre Natura. Per un “pagano” era naturale la subordinazione della donna e dei figli, come lo era il rapporto omosessuale, come lo era l’idea che la vita non avesse un valore in sé. È lui che, in generale, si ritiene in armonia con la natura.
È col sovrannaturale che il cristiano spera contro ogni speranza di potersi conciliare. Ed è su questo metro che egli dovrebbe giudicare dei comportamenti e delle leggi della civitas hominis , non su una qualsiasi forma di “naturalismo”. Il cristiano tradisce se stesso quando si fa rappresentante della Natura; vi è cosa più “innaturale” di porgere l’altra guancia a chi ci colpisce, di amare il proprio nemico, di affermare che il Regno è dei più miserabili?
Grandioso segno di contraddizione con il “naturale” è l’annuncio cristiano. Annuncio di libertà dal “naturale” da cui certamente ha inizia il nostro Evo; pensare di arrestarne la corrente su questo o quel punto è, forse pietosa, illusione.