Opinioni
21 luglio, 2025Non solo il reato di rivolta passiva, il governo vuol creare un servizio segreto penitenziario
Il 2 luglio è stata ricordata a Firenze la figura di Alessandro Margara a nove anni dalla scomparsa e a cinquant’anni dalla riforma penitenziaria di cui fu uno degli ispiratori. Il “cavaliere dell’utopia concreta” offrì un contributo essenziale alla legge Gozzini del 1986 e scrisse il Regolamento penitenziario approvato nel 2000 che sostituiva quello di Alfredo Rocco del 1931; infine, consapevole dei limiti di quei testi, elaborò una proposta di legge per un “Nuovo ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle pene e delle altre misure privative o limitative della libertà”. La data è del 3 novembre 2005 (venti anni fa!) e porta il numero 6164 con le firme dei deputati Boato, Finocchiaro, Fanfani, Pisapia.
Quella di Firenze non è stata una celebrazione ma un momento di riflessione e di denuncia, tanto più per la concomitanza con l’approvazione del famigerato decreto sicurezza che, come disse Grazia Zuffa, provoca «sgomento per la grande spregiudicatezza nell’inventare norme. Un’inventiva che sconfina nell’illegalità»: una definizione cruda, ma che aiuta a capire il motivo di una inaudita violenza istituzionale. Infatti, mentre il testo era in dirittura d’arrivo come disegno di legge, il governo, trasformandolo in decreto, ha voluto emulare una deriva trumpiana di forzatura democratica. Cento anni dopo le leggi fascistissime! Per fortuna il Massimario della Cassazione, ufficio tradizionalmente assai prudente, ha lanciato l’allarme.
Il reato di rivolta passiva ora introdotto, con anni di pena, per chi rivendicasse diritti con le armi della nonviolenza, prefigura il carcere come luogo di prova della guerra civile. Non è un caso che sia in gestazione un nuovo decreto governativo che prevede “Operazioni sotto copertura per la sicurezza degli istituti penitenziari”. Si vorrebbe istituire nelle carceri un servizio segreto e ampliare i poteri della polizia penitenziaria, a completare quella libertà di azione, di infiltrazione e di provocazione già consentita alle polizie dal decreto sicurezza per una nuova strategia della tensione.
Scongiurare questi pericoli significa operare per altre e opposte scelte politiche: amnistia e indulto, numero chiuso, case di reinserimento sociale, abolizione delle misure di sicurezza e scioglimento del nodo dei liberi sospesi. Già centomila persone usufruiscono di misure alternative, altre trentamila nel territorio anziché in cella risolverebbero il sovraffollamento, il problema degli spazi e del personale e consentirebbero un risparmio economico operato nel segno di quel mitico reinserimento sociale previsto dall’art. 27 della Costituzione.
Quando si presentano tempi torbidi bisogna rivolgersi ai giganti e ricorrere al loro pensiero che dà scandalo, svelando le radici del problema. Come quello espresso da Norberto Bobbio nella prefazione al libro di Irene Invernizzi, Il carcere come scuola di rivoluzione: «Invece di accettare rassegnatamente la condanna, accusano, invece di starsene sottomessi per “espiare” o “emendarsi”, si ribellano, invece di ubbidire agli ordini, li discutono, invece di fare il loro dovere, reclamano i loro diritti, e quando possono, cioè quando riescono a raggiungere nel fuoco di una protesta un minimo di coesione, si rivoltano come si sono sempre rivoltati nella storia i popoli, le classi, le nazioni oppresse». Era il 1973.
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