Saggi economici e recenti studi sociali concordano: l'eccesso di forbice sociale danneggia la società nel suo complesso, comprese le classi benestanti. E mette a rischio la democrazia
Le tre sorelle non se la passano bene. La Libertà è ancora negata in troppi paesi del mondo. La Fraternità, ovunque arrivino profughi e migranti, è in gravi difficoltà. Ma forse chi sta peggio di tutte è l’Uguaglianza.
Le disuguaglianze di reddito e di ricchezza si diffondono come una malattia endemica, provocando dappertutto guasti economici, sociali e politici. È un fenomeno globale, che coinvolge i paesi occidentali come le economie emergenti. Una distanza tra ricchi e poveri sempre in aumento, che rischia di creare divisioni permanenti tra universi che diffidano profondamente uno dell’altro, quando non arrivano a odiarsi.
Finora pochi politici sembrano essersene accorti. L’unico ad avere messo la questione al centro della sua agenda elettorale è stato il democratico americano
Bernie Sanders. «Lo 0,1 per cento degli americani più ricchi ha tanta ricchezza quanto il 90 per cento della popolazione. Qualcuno pensa che questo sia giusto? La classe media americana sta scomparendo. È ora di dire basta!», martella in ogni suo comizio durante le primarie. L’argomento ha trovato elettori tanto entusiasti da costringere anche Hillary Clinton a farlo proprio. La disuguaglianza ha cambiato così l’agenda politica dei democratici.
In realtà le cifre di Sanders non sono esattissime. Meglio ricorrere a quelle di
Joseph Stiglitz, l’economista premio Nobel che da anni denuncia con libri e articoli l’insostenibilità della situazione. In “La grande frattura”, appena uscito da Einaudi, Stiglitz scrive: «Il primo uno per cento degli americani si porta a casa ogni anno quasi un quarto del reddito della nazione. In termini non di reddito, ma di ricchezza del paese, il primo 1 per cento ne controlla il 40 per cento. Venticinque anni fa i termini di quel rapporto erano 12 e 33 per cento. Tutta la crescita degli ultimi decenni è andata a chi stava in cima».
Può sembrare un problema solo di equità sociale. Una disparità tanto enorme da essere eticamente inaccettabile, l’esatto opposto di quella “Economia giusta” evocata qualche anno fa da
Edmondo Berselli nel suo ultimo libro. Ma c’è altro. La disuguaglianza porta con sé effetti che riguardano l’economia in generale. «Quando il denaro si concentra molto in alto», scrive Stiglitz, «la domanda aggregata inizia a scendere». Detto in altre parole, le economie “ingiuste” crescono poco. Per decenni gli economisti “ortodossi” hanno sostenuto che il problema semplicemente non esisteva. Sulla base della teoria dello “sgocciolamento”: la ricchezza di chi sta in alto “cola” sugli strati sottostanti a beneficio di tutti. Perciò non c’è nessuna necessità di intervenire sul funzionamento spontaneo dei mercati, le cose vanno a posto da sole. Oggi è evidente che non è così. Persino le istituzioni internazionali tradizionalmente più liberiste, come Fondo monetario internazionale e Ocse considerano la disuguaglianza una minaccia per la crescita economica e premono perché si trovi un qualche rimedio.
Altro luogo comune da sfatare. La crescita tumultuosa di paesi come Cina, India, Brasile ha ridotto le disuguaglianze nel mondo? Lo chiediamo a
Branko Milanovic, economista già alla Banca mondiale, da anni studioso di povertà e disuguaglianza. Che ci anticipa quanto sostiene nel suo prossimo libro, “Global inequality”, (in uscita il mese prossimo negli Usa). «Con la globalizzazione le distanze tra paesi ricchi e paesi poveri si sono senz’altro ridotte. Ma solo se guardiamo alla media dei redditi. Le disuguaglianze all’interno dei paesi invece aumentano ovunque. Così in pochi decenni potremmo tornare al XIX secolo, quando le differenze maggiori erano tra ricchi e poveri inglesi, ricchi e poveri russi o ricchi e poveri cinesi. Una situazione familiare a qualunque lettore di Karl Marx». Non ci sarà più un occidente benestante rincorso dai paesi del “terzo mondo”. Ma super-ricchi e ultrapoveri su scala globale.
E in Italia come siamo messi? «Abbiamo una delle disuguaglianze economiche più alte in tutti i confronti internazionali», spiega
Maurizio Franzini, professore di Politica economica alla Sapienza che sta per pubblicare con Mario Pianta da Laterza “Disuguaglianze. Quante sono, come combatterle”. «E cresce da decenni. L’1 per cento della popolazione ha una quota del reddito nazionale del 10 per cento. Negli anni Ottanta era del 6,5. Un discorso appena un po’ tecnico serve a capire la distorsione caratteristica dell’Italia. Noi economisti distinguiamo tra redditi “di mercato” e redditi “disponibili”. Questi sono calcolati dopo le tasse e i trasferimenti del welfare. L’indice di Gini (che misura la diseguaglianza) per i redditi disponibili in Italia è 0,32, superiore a quello di Gran Bretagna, Francia, Germania. Ma per i redditi di mercato è altissimo, arriva allo 0,5. Questo significa che la disuguaglianza nasce da un mercato che funziona male, ed è così forte che tassazione e welfare non riescono a correggerla».
Eppure va combattuta, insistono tutti gli studiosi, perché questa iniquità dilagante ha conseguenze non solo economiche. «Il più importante effetto negativo», prosegue Franzini, «è sulla mobilità sociale. Chi nasce povero ha molte più probabilità di restare povero che in passato. Ma tutti gli indicatori della “qualità sociale” peggiorano. C’è chi ha trovato una relazione anche tra disuguaglianza e corruzione».
I paesi dove maggiore è la differenza di reddito sono quelli con malattie, criminalità, consumo di droghe, perfino obesità, e peggiore rendimento scolastico, come hanno dimostrato Richard Wilkinson e Kate Pickett in un libro, “La misura dell’anima” (Feltrinelli), ormai un classico sull’argomento.
«Trovo particolarmente intollerabile», dice
Chiara Saraceno, sociologa che molto ha studiato la povertà e i suoi effetti sulle famiglie, «la disuguaglianza che colpisce i bambini. Nascono svantaggiati. Alimentazione, scuole, case: sono condannati ad avere tutto peggio rispetto ai loro coetanei più fortunati. I test internazionali registrano differenze cognitive di due anni tra i ragazzi delle zone più ricche e quelli più poveri. Perché oggi in Italia il welfare funziona a rovescio. È di qualità inferiore proprio nelle zone dove invece ci sarebbe più bisogno di servizi migliori. Le scuole a tempo pieno, per esempio, sono molte di più nel centro-nord. Per questo bisogna pensare ad azioni “selettive”. Ci vorrebbe una scuola “davvero” buona, servizi “veramente” inclusivi. Bisogna cioè investire risorse con un’attenzione particolare ai più svantaggiati».
L’origine di tutto questo? «C’è stata una lotta di classe negli ultimi vent’anni e l’abbiamo vinta noi» è la celebre sintesi fulminante del miliardario americano Warren Buffett. Come diceva ancora Berselli «a un certo punto si è deciso che invece di far guadagnare di più chi stava peggio, bisognava far avere più soldi ai ricchi». Due i meccanismi fondamentali: la deregulation dei mercati finanziari e del mercato del lavoro. «Gran parte della disuguaglianza di oggi è dovuta alla manipolazione del sistema finanziario», sostiene Stiglitz, scandalizzato per gli immensi guadagni di grandi investitori e manager, compresi i responsabili della grande crisi del 2007, che hanno continuato ad assegnarsi “bonus” spropositati.
Sull’altro fronte, spiega Franzini, «la proliferazione di forme contrattuali flessibili, precarie, sempre più individuali ha fatto nascere il fenomeno dei “working poors”. Oggi per essere poveri non c’è più bisogno di essere disoccupati».
Thomas Piketty, nel suo bestseller “Il capitale nel XXI secolo”, sostiene che l’aumento della disuguaglianza è nella natura del capitalismo. È sempre stato così, con l’eccezione dei trent’anni successivi alla seconda guerra mondiale, “les trentes glorieuses” come li ha chiamati un altro francese, Jean Fourastié. Stiglitz, con molti altri, non è d’accordo. «La disuguaglianza è una scelta politica» è un suo slogan. Dovuta al fatto che chi comanda fa parte dell’1 per cento. Le opinioni della minoranza più ricca prevalgono su quelle della maggioranza, come hanno dimostrato i due politologi Martin Gilens e Benjamin Page. Ma è una scelta miope. «La sensazione di partecipare a un gioco dove le carte sono truccate, allenta i legami che tengono insieme come nazione», conclude Stiglitz. Ed ecco l’astensione, la rivolta contro l’establishment, l’astensionismo, e la fortuna di personaggi populisti come Donald Trump.
«Le ragioni per stare assieme, per stare alle regole vengono meno», concorda Saraceno. «Ecco allora prevalere, disaffezione, devianza, illegalità, rancore, desiderio di vendetta sociale. In una parola, perdita di fiducia. Pensiamo alla frustrazione che possono provare oggi genitori che si sacrificano per far laureare i figli, e scoprono che restano disoccupati, mentre i laureati figli delle famiglie più ricche trovano lavoro senza problemi».
Senza speranza nel futuro, nella possibilità di salire la scala sociale, di migliorare, vengono meno le premesse delle democrazie moderne. Che volevano garantire se non uguali condizioni di partenza, uguali chance.
In una società equa ognuno dovrebbe avere l’opportunità di costruirsi la vita secondo i propri desideri, come dice Amartya Sen: «Uguaglianza è libertà».