Thomas Piketty: "È l’ora di far pagare i ricchi"
Un’imposta progressiva sul patrimonio per favorire la redistribuzione del reddito. È quanto occorre fare subito per correggere le iniquità, altrimenti esploderanno rabbia sociale e nazionalismi. Perché il mercato non è una realtà astratta che funziona in modo spontaneo e non può esistere senza etica e regole
Nelle società colpite dalla crisi l’aumento delle disuguaglianze economiche minaccia sempre di più i valori di giustizia sociale alla base della democrazia. È quanto ha denunciato “Il Capitale nel XXI secolo” (Bompiani, p.946, 22€), il corposo saggio di Thomas Piketty, che con il suo successo planetario ha rimesso al centro del dibattito economico il tema della ripartizione delle ricchezze e la necessità di scelte politiche in grado di ridurre le differenze all’interno della società.
«Negli anni scorsi ha prevalso un discorso neoliberale a senso unico che ha rimosso il problema delle disuguaglianze, concentrandosi solo sulla necessità della crescita di cui teoricamente avrebbero dovuto beneficiare tutti», spiega lo studioso che insegna all’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales e all’Ecole d’économie de Paris. «Oggi sappiamo che ciò non è vero: quando la crescita c’è, non tutti ne approfittano. Come pure sappiamo che le politiche ortodosse perseguite in questi anni per tentare di rilanciare l’economia sono state un disastro. La riduzione a tappe forzate dei deficit pubblici ha condotto a una terribile recessione che ha reso ancora più gravi le disuguaglianze economiche all’interno della società. I poveri sono sempre più poveri e i ricchi sempre più ricchi.»
Lei sostiene che si sta tornando a una situazione simile a quella dell’inizio del XX secolo, quando i grandi patrimoni concentravano la quasi totalità delle ricchezze... «In effetti ci stiamo muovendo in quella direzione, anche perché quando, come avviene oggi, il tasso di rendita del capitale supera durevolmente il tasso di crescita dell’economia, si crea una situazione di squilibrio che accentua inesorabilmente le disparità economiche. Il peso dell’eredità diventa sempre più importante rispetto al lavoro, i grandi patrimoni aumentano quasi meccanicamente, mentre il patrimonio della classe media tende ad erodersi. Proprio per evitare tali derive, la nostra società possiede istituzioni sociali e educative che mirano a ridurre tali diseguaglianze, solo che oggi tali istituzioni sono più fragili e minacciate dalla crisi.»
Il capitale culturale è un elemento su cui far leva per ridurre le disparità sociali? «Dovrebbe essere così. Purtroppo però in Europa non s’investe abbastanza nell’educazione, contribuendo a rendere sempre più gravi le differenze di accesso alla cultura. I ricchi possono pagarsi le scuole e le università più prestigiose, scavando ancora di più la distanza che li separa dai più poveri. In Italia, gli interessi sul debito rappresentano 6-7 per cento del Pil, mentre la spesa per l’università è appena dell’1 per cento. Non è così che si prepara il futuro, perché alle disuguaglianze economiche e sociali a poco a poco si aggiungono quelle culturali, con conseguenze che possono diventare esplosive.»
In effetti, le manifestazioni di collera sono sempre più frequenti... «Più ancora della collera sociale che si manifesta nelle piazze, temo il ritorno dei nazionalismi e il rifiuto dell’euro. Di fronte alla crisi che alimenta questa situazione, i paesi europei, e in particolare la Francia e la Germania, si rinfacciano le responsabilità, ma senza poi fare niente. È una follia sostenere che non esistano alternative all’attuale politica economica e che occorra solo aspettare il ritorno della crescita. La storia c’insegna che l’austerità da sola non riesce a ridurre il debito, ma in compenso sprofonda l’economia in un ciclo recessivo o di crescita debolissima. Il ripiego nazionalista diventa allora una tentazione per tutti coloro che si sentono minacciati e impotenti di fronte ai mercati e alla mondializzazione.»
Cosa si può fare per invertire questa tendenza? «Dato che la prima delle disuguaglianze è quella delle disoccupazione che colpisce soprattutto i giovani, occorre subito rimettere in moto l’economia, abbandonando le politiche recessive degli ultimi anni. Ma occorre agire a livello europeo, e quindi è necessaria una maggiore integrazione economica e politica: non si può avere una moneta comune e diciotto debiti pubblici diversi, diciotto tassi d’interesse e diciotto politiche fiscali differenti. Con le attuali istituzioni europee, è impossibile impostare politiche economiche e sociali di tipo progressista, motivo per cui è urgente rifondare l’Europa. Con un parlamento della zona euro e un ministro delle finanze della zona euro, le decisioni sul deficit, la fiscalità, le politiche di rilancio sarebbero certamente più efficaci di quelle che abbiamo preso finora. Invece di continuare a lamentarsi, l’Italia e la Francia dovrebbero proporre alla Germania e agli altri Paesi dell’euro alcune proposte concrete per una gestione più democratica dell’economia. Di fronte a proposte serie, per la Germania sarebbe molto difficile dire di no. Per adesso però queste proposte mancano.»
Altre misure per ridurre le disuguaglianze? «A livello europeo dobbiamo coordinare la tassazione delle grandi multinazionali, che pagano meno tasse delle piccole e medie imprese: è una forma di disuguaglianza assolutamente da combattere. Inoltre, per garantire una maggiore ridistribuzione delle ricchezze, occorre introdurre un’imposta progressiva sul patrimonio che tassi allo stesso modo i patrimoni finanziari e quelli immobiliari. Una simile imposta ha però senso solo a livello internazionale con scambi automatici d’informazioni tra gli Stati, per evitare le frodi e le delocalizzazioni fiscali. Anche in questo ambito si potrebbe iniziare a livello europeo.»
Per molti osservatori un’imposta di questo genere è un’utopia... «Anche l’imposta progressiva sul reddito all’inizio del secolo era un’utopia, eppure oggi è una realtà. Le cose si possono fare, basta averne la volontà politica. L’integrazione delle politiche economiche non è un’utopia ma la sola soluzione realistica per uscire dallo stallo in cui siamo. In Europa aspettiamo sempre l’ultimo minuto per reagire. Solo che questa volta stiamo scherzando col fuoco.»
Le disuguaglianze sempre più accentuate possono far esplodere la società e le istituzioni democratiche? «Il rischio c’è, io però non sono un apocalittico. Le opinioni pubbliche europee tengono molto al nostro modello sociale, quindi possono far pressione sui dirigenti politici e spingerli a prendere le giuste decisioni. I trattati europei possono benissimo essere cambiati, come è già stato fatto in passato. A questo proposito, pensavo che Renzi avrebbe dato un nuovo impulso all’Europa, ma per adesso non si è visto molto.»
Tutto ciò significa che la politica deve riprendere il sopravvento sull’economia? «Sicuramente, perché i mercati non si autoregolano da soli. Dopo il crollo del muro di Berlino in molti si sono illusi che la libera concorrenza avrebbe risolto tutti i problemi. È stato un errore. Io credo al mercato e agli effetti benefici della mondializzazione, ma sono anche convinto della necessità di istituzioni pubbliche forti in grado di riprendere il controllo sulle forze dell’economia, le quali devono essere messe al servizio della collettività e dell’interesse comune.»
L’economia ha quindi bisogno di etica? «L’economia non può esistere senza etica, senza regole, senza istituzioni. Il mercato non è una realtà astratta che funziona armoniosamente in modo spontaneo. L’economia di mercato è sempre una costruzione sociale, politica e giuridica frutto di compromessi, di interessi e di visioni sociali differenti. È un’illusione pensare di avere un’economia di mercato senza politica e senza etica.»
Come vede il futuro? Pensa che la crisi potrà essere superata? «Voglio essere ottimista, perché ci sono alcuni motivi per esserlo. Per esempio, se è vero che in Europa il debito pubblico è molto alto e gli Stati hanno sempre meno risorse, è vero però che collettivamente non siamo mai stati così ricchi. In Italia l’intero patrimonio privato corrisponde a sette anni di Pil, mentre il debito pubblico non rappresenta neanche un anno e mezzo di Pil. Insomma, in termini macroeconomici, siamo molto più ricchi di quanto non si immagini. E da qui si può ripartire, dato che una parte di questa ricchezza può essere utilizzata per ridurre le disuguaglianze. È solo una questione di scelte politiche e di democrazia.»